I ministri delle Finanze del G20 sostengono in pubblico l’introduzione di una web tax condivisa che regoli il sistema fiscale dell’economia digitale, ma nei fatti ogni genere di impegno concreto per cambiare davvero le cose è stato abilmente dribblato, in particolare per la mancanza di ambizione e visione comune da parte dell’Unione Europea.
I ministri delle Finanze del G20 si sono incontrati lo scorso weekend in un summit in Argentina. Al centro del tavolo la ricerca di un consenso globale per l’introduzione di un nuovo regime fiscale sulle tasse da imporre a player come Amazon, Facebook , Apple, Google altri campioni dell’economia digitale.
Pochi i progressi in materia, con un blando comunicato finale, dove si legge “Sosteniamo un sistema fiscale equo, sostenibile e moderno a livello internazionale…Resta il nostro impegno a lavorare insieme per cercare una soluzione condivisa per rispondere agli impatti della digitalizzazione dell’economia sul sistema fiscale internazionale entro il 2020, con un aggiornamento nel 2019”.
Al termine del summit, nel comunicato ufficiale, nessun dettaglio su come raggiungere l’obiettivo, anche perché la tensione si tagliava con un coltello dopo il recente G7, che ha visto gli Stati Uniti in conflitto diretto con gli altri sei paesi del consesso.
In altre parole, le parole di circostanza del G20 sulla web tax rispecchiano le divisioni pesanti dei paesi in materia di tassazione digitale.
Eppure, i ministri delle Finanze Ue avevano espresso chiaramente i loro obiettivi prima del G20, dove avrebbero voluto ottenere soluzioni praticabili ed efficaci a livello globale con un accordo da raggiungere al più tardi entro il 2020. Aggiungendo poi che diversi paesi (fra cui l’Italia) sono interessati a soluzioni temporanee da mettere in atto in attesa di un quadro complessivo globale.
La Commissione Europea ha presentato due proposte di direttiva nei mesi scorsi che riguardano sistema fiscale ed economia digitale – Proposal for a Council Directive – laying down the rules relating to the corporate taxation of a significant digital presence e ancora Proposal for a Council Directive on the common system of a digital services tax on revenues resulting from the provision of certain digital services.
La prima proposta prevede che le web company con fatturato superiore a 7 milioni di euro, o che abbiano più di 100mila utenti o che abbiano più di 3mila contratti attivi per servizi digitali, siano tassate nei paesi dove generano fatturato, e non soltanto nei paesi dove hanno la loro sede legale.
La seconda proposta di direttiva prevede un’aliquota del 3% sui ricavi delle grandi aziende che hanno un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro e ricavi all’interno dell’area Ue di almeno 50 milioni di euro. Oggi come oggi, le web company pagano le tasse sugli utili, quindi pagano molto meno se non addirittura nulla se riescono a dimostrare che in certi paesi sono in perdita.
Questa seconda proposta non piace a tutti i paesi della Ue, ad esempio all’Irlanda, paese d’elezione fiscale della maggior parte delle tech company americane.
Per non parlare delle tech company americane, che vedono questa proposta come fumo negli occhi e la definiscono come anti-americana. Ed è anche per questo che molti detrattori della web tax temono che una stretta fiscale nei confronti dei giganti della Rete dia nuovo fiato al presidente Trump nella guerra dei dazi in corso con la Ue.
Hubert Fuchs, rappresentante del Consiglio Europeo al G20, ha detto apertamente che “una delle grandi sfide è che la tassazione dell’economia digitale è soprattutto una tassazione di compagnie americane, visto che americane sono le tech company più potenti a livello globale. Per questo gli Stati Uniti pensano che si tratti di un attacco alla loro economia digitale, il che non è davvero così”.
Che il fronte dell’economia digitale sia caldo lo dimostra la reazione picca di Trump, che dopo la recente maxi multa da 4,3 miliardi di euro dell’Antitrust Ue a Google su Android ha promesso vendetta su Twitter. Che il Governo statunitnese sia vigile in materia, per difendere i suoi campioni digitali in nome dell’”America first”, lo dimostra anche la dichiarazione di Segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, che quest’anno in una nota ufficiale si è detto “fermamente contrario ad ogni proposta di qualunque paese per trattare in modo differenziato le aziende digitali”, aggiungendo che le tech company sono fondamentali per l’economia americana.
Lo stesso Trump durante l’ultimo G7 non ha risparmiato strali contro il commissario Antitrust della Ue Margrethe Vestager, battezzandola “la vostra Tax Lady….Lei davvero odia gli Usa”.
Non solo gli usa sono contrari alla web tax. Anche l’Australia, ad esempio, non è favorevole, mentre sull’altro fronte al mmento è l’Austria il paese che chiede a voce più alta l’introduzione di nuove regole, per quanto temporanee. Una posizione che non passa inosservata, visto che l’Austria ha da poco assunto la presidenza del Consglio Europeo. A metà del guado resta il Regno Unito.