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Web tax, ma l’Italia può approvarla anche senza il ‘permesso’ della Ue

Apple-Google

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La manfrina sulla web tax iniziata, di recente, in Europa è un ulteriore assist agli OTT. All’Ecofin, che si è tenuto a Tallinn, in Estonia nei giorni scorsi, l’iniziativa di Francia, Germania, Italia e Spagna, di iniziare a tassare i giganti del web sul fatturato generato nell’Unione europea e non più sui ricavi, è stata sottoscritta dai ministri delle finanze di Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romenia. Dunque da 4 a 10 Stati a favore. Ancora troppo pochi per essere vicini all’introduzione della web tax in tutta l’Ue.

L’Irlanda, Lussemburgo, Malta, gli Stati con regimi da paradiso fiscale per i giganti della Rete, non sembrano affatto intenzionati a dare l’ok. Infatti a Tallinn i ministri delle finanze delle tre Nazioni hanno provato a prendere tempo e hanno chiesto di riparlare della tassazione delle imprese dell’economia digitale solo quando in presenza di un accordo a livello mondiale, ma sappiamo che l’Ocse sul tema non ha molta fretta.

L’accordo europeo non è la strada da percorrere

Tutto questo fa capire che l’accordo europeo non è la strada da perseguire, perché lunga e con una meta non precisa. Invece la soluzione già c’è ed è a portata di mano. Infatti ogni Stato ha la possibilità di approvare la web tax quando preferisce, perché il Fisco è una di quelle materie sulle quali l’Ue non ha competenza e difatti l’Italia ha fatto scuola in questo senso: nel nostro Paese, con l’approvazione del Parlamento della ‘manovrina’ correttiva dei conti pubblici chiesta da Bruxelles, è stata votata anche la cosiddetta ‘web tax transitoria’: la norma è in vigore dal 24 giugno scorso ed è concepita come un intervento transitorio o ‘ponte’, in attesa che si intervenga a livello sovranazionale con regole comuni. Dunque non è un regime di tassazione, ma l’ok a nuove regole per accordi di tipo fiscale tra i colossi dell’economia digitale e il fisco italiano. Infatti i giganti del web, con oltre un miliardo di ricavi e un giro d’affari di almeno 50 milioni di euro, potranno stringere accordi preventivi con l’Agenzia delle entrate. È possibile anche chiedere il riconoscimento della stabile organizzazione e regolare i conti con il fisco rispetto al passato, attraverso un accertamento con adesione, sanzioni dimezzate e il rischio di un procedimento penale azzerato. È stato fatto un primo passo e senza un accordo dei 27 Stati (Uk è in uscita) l’Italia, da sola, potrebbe ancora di più rincarare la dose, come annunciato da Francesco Boccia (PD), che porta avanti la battaglia della web tax dal 2013 (leggi la sua intervista a key4biz) ed è il primo firmatario dell’emendamento con cui è stata introdotta in Italia la ‘web tax transitoria’.

“A margine del vertice Ecofin a Tallinn si sono sentite molte belle parole, molte dichiarazioni di intenti, tanta condivisione sulla necessità di trovare una soluzione ma pochi fatti concreti”, ha dichiarato Boccia, che ha aggiunto: “Siamo ancora alla fiera delle buone intenzioni. L’Italia, come ha ricordato il ministro Padoan, ha già portato avanti delle iniziative in tal senso ma se l’Europa non sarà in grado di concretizzare una proposta di web tax che superi il concetto di non stabile organizzazione, facendo pagare alle Over the Top almeno le imposte indirette nei Paesi in cui fanno business e le giuste imposte sui profitti, confermerà ancora una volta che l’unione fiscale è un valore solo per alcuni e non per tutti”.

Ecco dunque la strada che Boccia indica di percorrere all’Italia in assenza dell’ok di tutti gli Stati: “Il tempo degli studi e delle analisi è finito. L’Italia senza un accordo in Europa sarà costretta a recuperare gettito attraverso l’opzione volontaria delle imprese che decidono di diventare italiane e con il lavoro impagabile degli inquirenti che indagano sulle ripetute elusioni dei giganti del web. In entrambi i casi, sarebbe una sconfitta della politica e dell’Europa”, ha concluso Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera.

La dichiarazione dell’onorevole del PD fanno capire bene che c’è l’urgenza di porre fine all’elusione fiscale dei giganti del web e la soluzione va rapidamente trovata perché se guardiamo agli anni passati scopriamo dati choc, che ci fanno rabbia: l’Unione Europea ha perso 5,4 miliardi di euro nel periodo 2013-2016 in tasse non corrisposte da Google e Facebook, che in Europa hanno la loro sede fiscale in Irlanda. E’ quanto è emerso da un report, consultato da Reuters, e realizzato dai tecnici di Bruxelles alla vigilia dell’Ecofin. Le norme attualmente in vigore impongono invece alle grandi web company Usa il pagamento di tasse soltanto nei Paesi dove hanno una “stabile organizzazione” e la sede fiscale, indipendentemente dal luogo in cui generano gli utili. Google paga tasse pari al 9% dei ricavi fuori dalla Ue (esclusa l’Irlanda), ma questa percentuale diminuisce fino allo 0,82% all’interno dell’Unione.

“La percentuale delle tasse sui ricavi realizzati fuori dall’Europa è compresa fra il 28% e il 34%, mentre nella Ue l’aliquota è compresa fra lo 0,03 e lo 0,10%”, si legge nel report. Questo ha portato a una perdita di ricavi imponibili per i Paesi Ue, Irlanda esclusa, compresa fra 51 e 54 miliardi di euro fra il 2013 e il 2015.

Dati allarmanti. Per questo la web tax va approvata subito, dagli Stati singolarmente e unilateralmente, anche se guardiamo l’economia digitale nel futuro: oggi rappresenta il 10% del Pil dell’area Ue, tra un decennio passerà al 30-40 per cento. Quindi, il gettito a rischio è molto alto e potrebbe avere conseguenze rilevanti sulla sovranità fiscale di un Paese, sul modello sociale europeo, sulla sostenibilità stessa dei conti pubblici. Se l’Ue ha iniziato a discutere per trovare e non trovare nelle intenzioni di alcuni Stati la quadra, l’Italia, se vuole, appena possibile può approvare la web tax con la relativa percentuale di tasse da far pagare agli OTT che fatto profitti nel nostro Paese.

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