La web tax ritorna nell’agenda dell’Unione europea. Oggi il tema è sul tavolo della riunione informale dell’Ecofin, i ministri dell’economia e delle finanze degli Stati membri discutono, per l’ennesima volta, questa volta a Vienna le possibili soluzioni per introdurre la tassazione ai giganti del web che realizzano gli utili nell’Unione europea.
A marzo la Commissione europea ha avanzato due proposte:
- Far pagare alle web company, con un fatturato rilevante generato nell’Ue, una percentuale del 3% sul loro giro d’affari (turnover). Secondo le stime, con un’aliquota del 3%, l’imposta potrà generare entrate per gli Stati membri di circa 5 miliardi di euro all’anno. L’imposta sarà riscossa dagli Stati membri in cui si trovano gli utenti e si applicherà solo alle imprese con ricavi annui complessivi a livello mondiale di 750 milioni di euro e ricavi nella Ue di 50 milioni di euro.
L’obiettivo è di imporre la web tax nel Paese dove sono basati gli utenti digitali. Questa è la soluzione preferita dalla Commissione, che ne ha proposta anche una seconda: - Un’imposta temporanea su determinati ricavi di attività digitali per garantire che le attività attualmente non tassate inizieranno a generare un gettito immediato per gli Stati membri.
Se non tutti d’accordo, la soluzione con la ‘Cooperazione rafforzata’
Per passare e diventare legge in tutti gli stati della Ue, la proposta ha bisogno del voto unanime del Parlamento Ue e di tutti i 28 stati dell’Unione, che sono tutt’altro che d’accordo, anzi sono divisi. In materia fiscale le riforme devono essere approvate con voto unanime in Europa.
Ma già al Digital Summit che si tenne a settembre in Estonia il premier Paolo Gentiloni disse che bisogna “Decidere subito sulla tassazione dei giganti del web. Se la proposta della Commissione Ue non trova l’ok dei 28 Paesi, si può procedere comunque con la web tax attraverso la ‘cooperazione rafforzata’ di un gruppo di almeno 9 Stati dell’Unione europea”.
Paesi favorevoli alla web tax
Sono molti i Paesi europei (dalla Germania alla Francia ma anche l’Italia) che da tempo accusano le web company Usa di pagare troppo poco nei Paesi del blocco, spostando ad arte i profitti nei paesi come Irlanda e Lussemburgo con regimi fiscali più favorevoli.
Paesi contrari alla web tax
L’Irlanda, ad esempio, ha messo in guardia dal fatto che la web tax rischia di suddividere, e quindi diminuire, la fetta della torta fiscale delle web company, piuttosto che aumentare a tassazione. Contrari anche Lussemburgo, Olanda e Malta tutti Paesi con regimi fiscali più favorevoli per gli Ott.
Web tax all’italiana, è polemica tra Martina e Mucchetti
In attesa di una decisione a livello europeo, in questi giorni in Italia è esplosa la polemica per la mancata attuazione del decreto attuativo per introdurre, dal 2019, la tassa in Italia, prevista dalla Legge di Bilancio 2017 nei seguenti termini: “una tassazione dell 3 per cento, non estesa all’eCommerce. Salve le tante piccole e medie imprese e startup italiane che non superano il numero annuo di 3mila transazioni digitali”.
A scatenare la discussione è stato Maurizio Martina, segretario del PD: “l’ultima beffa di questo governo è persino l’insabbiamento della web tax da far pagare ai giganti della rete che vendono in Italia. Noi l’avevamo inserita nell’ultima legge di Stabilità, l’esecutivo dovrebbe fare il decreto attuativo ma non ce n’è traccia. Avrebbe un gettito di circa 200 milioni che potrebbero servire per costruire nuovi strumenti di tutela dei precari della Gig Economy di cui Luigi Di Maio ha tanto parlato per poi non fare nulla per loro”. Gli ha risposto l’ex senatore del Pd Massimo Mucchetti: “inadempiente Conte, ma anche il suo predecessore Gentiloni. E meno male”, la sintesi della lettera inviata al Corriere della Sera da Mucchetti.
La legge di Stabilità, precisa oggi l’Agi, stabilisce che le modalità precise di applicazione dell’imposta sarebbero state stabilite con un decreto del ministro dell’Economia. Questo decreto, secondo il comma 1012, avrebbe dovuto essere emanato entro il 30 aprile 2018 e avere valore dal primo gennaio 2018. Al 30 aprile, il governo Conte ancora non era in carica, essendosi insediato il primo giugno 2018. Dunque la responsabilità cade anche sull’esecutivo Gentiloni, che tra dicembre 2017 e aprile 2018 non ha emanato il decreto del Mef. Il termine del 30 aprile, comunque, non era tassativo (si parla in questi casi di termine “ordinatorio” ma non “perentorio”), e il governo successivo – quello Conte, appunto – potrebbe emanare il decreto anche dopo.
La web tax non è presente del contratto per il Governo del cambiamento, ma la tassazione ai giganti del web era stata inserita nei programmi elettorali sia di M5S sia della Lega, come si legge dal confronto che abbiamo fatto ad aprile, nei giorni in cui M5S cercava un accordo o con il Pd o con la Lega.