In Italia si torna a parlare di Web Tax. Sarebbe, infatti, allo studio del Ministero dell’Economia una misura per tassare i profitti realizzati nel nostro Paese dalle società di Internet.
Stando a quanto apprende Key4biz l’argomento è tornato all’attenzione del Governo e, nonostante l’attuale susseguirsi di riunioni a ritmo serrato per le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, ci sarebbe stato anche spazio per discutere di fisco ed economia digitale.
L’attenzione è adesso rivolta al Consiglio dei Ministri del 20 febbraio dove con ogni probabilità si discuterà della nuova misura.
Una norma quindi che andrebbe a colpire direttamente gli Over-The-Top, come Google, Apple, Amazon o Facebook, che realizzano fatturati milionari ma che grazie ad alcune scappatoie riescono a traghettare i loro profitti nei Paesi europei con regimi fiscali agevolati, spesso Irlanda e Lussemburgo.
La Commissione Ue ha avviato alcune inchieste in materia e l’Irlanda, dopo una forte pressione, ha già deciso dal 1° gennaio di cancellare il famoso Double Irish che permetteva a tante multinazionali, spesso operanti sul web, di pagare tasse irrisorie.
In Italia invece si è ancora fatto molto poco.
Ci aveva provato l’on. Francesco Boccia, presidenza della Commissione Bilancio della Camera, con la cosiddetta Web Tax, ostacolata però dal premier Renzi che aveva promesso un intervento durante il semestre di presidenza italiana della Ue.
Cosa che però non è avvenuta, per cui al momento è operativa dal 1° gennaio 2014 solo la parte della norma voluta da Boccia che riguarda la tracciabilità dei pagamenti per i servizi online (ruling) mentre resta accantonata quella che introduceva l’obbligo di partita Iva italiana per le società che operano sul mercato della pubblicità online.
E così, mentre la Gran Bretagna ha già messo in cantiere la tassa pari al 25% sui profitti delle multinazionali e Germania e Francia sono ormai al muro contro muro con le web company e hanno chiesto alla Commissione Ue una consultazione sugli OTT, l’Italia finora è rimasta a guardare.
Adesso le cose sembrano muoversi.
Non a caso il Viceministro all’Economia, Luigi Casero, intervenendo il Parlamento sulla riforma fiscale, ha parlato anche di “imprese che utilizzano strumenti tecnologici“, e quindi di “tutte quelle del web, come Google”.
Pare che l’intenzione del Tesoro, stando a quanto riporta il Messaggero, sia di introdurre la tassa sui profitti realizzati in Italia attraverso uno dei decreti attuativi alla delega fiscale, quello sul ruling.
Ma per far ciò è prima necessario rivedere la nozione di ‘stabile organizzazione’ che è quella che finora ha permesso alle multinazionali di bypassare il fisco.
Sappiamo, infatti, che le filiali delle web company non figurano mai, o quasi, come ‘stabile organizzazione’ ma come società di servizi.
Dei profitti realizzati ne rispondono invece le case madri che spesso hanno sede europea in un Paese a regime fiscale agevolato.
Secondo le intenzioni del Tesoro si vorrebbe adesso aggiungere un ulteriore requisito che è quello di fissare una soglia del fatturato oltre la quale le aziende in questione sarebbero obbligate a pagare le imposte in Italia.
Un provvedimento che sarebbe in linea anche con le indicazioni arrivate dall’Ocse e permetterebbe infine di tassare le web company che in Italia generano fatturati da capogiro, eludendo le imposte.
Secondo l’inchiesta realizzata da Paolo Pozzi su ‘I nuovi padroni della pubblicità. La mappa di chi comanda e investe sui media, in Italia’, Google è al secondo posto, dopo Publitalia e prima della Rai, nella classifica dei fatturati pubblicitari sul mercato italiano.
In Italia, Big G da sola con i suoi 800 milioni di euro nel 2012 e 1.100 nel 2013 stimati dagli operatori del mercato vale quanto quattro delle maggiori concessionarie di pubblicità italiane messe insieme, ovvero Rcs Pubblicità (476 milioni), Manzoni (403 milioni),Mondadori Pubblicità (141 milioni) e 24 Ore System (128 milioni).
La pozione di forza di Google è emersa chiaramente anche nel Rapporto Agcom. L’azienda dopo aver fornito all’Autorità i dati utili a stimare i ricavi pubblicitari in Italia, ai fini del computo del Sic, ha poi deciso di ricorrere al Tar contro tale richiesta.