Il tema della tassazione delle attività che si svolgono in rete presenta una elevata complessità tecnica, comune a tutte le questioni di fiscalità transnazionale. I concetti di transfer pricing, profit shifting, base erosion, mismatch racchiudono una varietà di problemi e di soluzioni di non immediata percezione e comprensione per chi non sia un esperto di diritto tributario.
Si tratta peraltro di un fenomeno comune a tutto il processo di dematerializzazione delle attività umane, ivi comprese quelle economiche, che in questo caso presentano anche la caratteristica di poter esser rese senza quel che sembrava essere un punto fermo della imposizione tributaria, e cioà la presenza di una “stabile organizzazione”.
Le incertezze dell’osservatore esterno, peraltro, appaiono confermate dall’immobilismo delle istanze internazionali cui sembrerebbe essere affidato il compito di trovare soluzioni condivise. Così nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dal 1998 si susseguono “moratorie” sulla tassazione del commercio elettronico. In sede OCSE e Unione Europea non si è molto al di là di una serie di progetti, al momento ancora molto lontani dalla traduzione normativa.
Le ragioni sono intuibili: la potestà impositiva tocca il fondamento della sovranità dello Stato ed è quindi comprensibile che i molteplici e divergenti interessi fatichino a trovare un punto di equilibrio.
Il che, inevitabilmente, mette in luce la dimensione tutta politica del tema.
Per chi è convinto che il Fisco non sia un insieme di regole minuziose e altamente tecniche, ma sia il fondamento del patto fra una comunità – persone e imprese – e lo Stato, e dunque sia la base costituzionale su cui poggia il resto, vi è un principio irrinunciabile e cioè quello pacta sunt servanda. Le regole fiscali devono essere fissate per legge, e mantenute stabili nel tempo al fine di consentire una prevedibile programmazione delle attività produttrici di reddito.
In questo contesto si manifesta una costante dello sviluppo economico negli ultimi due secoli: le nuove imprese nascono grazie o ad incentivi fiscali, ovvero approfittando di lacune nella esistente normativa fiscale. Questa seconda ipotesi si è verificata, con grande evidenza, nel caso delle attività svolte su internet. Nel momento in cui si decide di colmare tali lacune, per ovviare al significativo spostamento di ricchezza dall’economia reale a quella digitale, occorre farlo in maniera chiara e con linee di sviluppo prevedibili.
Qui si coglie una intrinseca – e non facilmente risolubile – contraddizione all’interno dell’Unione Europea. Per un verso si è molto puntato sulla concorrenza fiscale fra gli Stati membri soprattutto al fine di sviluppare talune regioni con forte ritardo economico. Ma al tempo stesso si è messo in luce, in tutte le sedi, che la concorrenza interna può essere falsata dall’adozione di regimi fiscali di favore i quali sono considerati – da sempre, dalla Corte di Giustizia – come forme di aiuto di stato.
Con il risultato che servizi sostanzialmente analoghi sono sottoposti ad un regime fiscale fortemente differenziato sol perchè prestati con un mezzo diverso (si pensi solo alla fruizione dello stesso prodotto audiovisivo attraverso una rete di radiotelevisione circolare e attraverso la rete internet).
In questa direzione non si può non evidenziare come il recente (maggio 2014) rapporto finale del Gruppo di esperti dell’Unione Europea sui problemi fiscali dell’economia digitale ha evidenziato la necessità di evitare disparità di trattamento e che, nello spirito di leale collaborazione fra Stati membri, vengano imposte misure anti-elusione laddove siano evidenti fenomeni di “fiscal shopping” che erodono significativamente la base imponibile degli altri Stati.