Il governo italiano si comincia a muovere sul fronte OTT e fisco. Pare, infatti, che l’esecutivo di Renzi voglia rimettere mano alla spinosa questione che riguarda le grandi web company e i sistemi messi in campo per eludere le tasse, pensando all’introduzione di nuove misure fiscali.
In Italia è già in vigore la Web Tax sul ruling voluta dal presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, che non ha mai mollato la presa sulla necessità che l’Italia adottasse regole per imporre alle multinazionali di internet di pagare le giuste imposte anche nel nostro Paese.
Adesso il governo potrebbe dare una svolta alla questione, aprendo un nuovo capitolo.
Nel mirino ovviamente i giganti del web come Google che da poco ha ricevuto dalla Ue la Comunicazione di addebiti per il caso antitrust che riguarda la ricerca online e che in Italia sarebbe vicina all’accordo con la Procura di Milano per il contenzioso fiscale da 800 milioni di euro. Ma Google non è l’unica, sotto la lente anche i sistemi di Apple, che nel nostro Paese avrebbe evaso 879 milioni di euro, Facebook e Amazon.
Il piano del governo
Stando a quanto riporta oggi il Corriere della Sera, il governo è pronto a dichiarare guerra ai giganti dell’economia digitale e a costringerli a pagare le tasse sugli affari effettivamente realizzati in Italia, che finora sono state sistematicamente eluse.
Da qualche giorno sul tavolo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, scrive il Corriere della Sera, c’è un piano che prevede l’applicazione di una ritenuta alla fonte del 25%, operata da banche e intermediari, sui pagamenti a favore delle multinazionali con sede all’estero.
La proposta sul tavolo di Renzi nasce da Scelta Civica ed è stata messa a punto dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti.
L’obiettivo è inserirla a giugno nel nuovo pacchetto di decreti legislativi di attuazione della delega per la riforma fiscale.
A fronte di un fatturato “italiano” di circa 11 miliardi di euro, le società che operano online pagano all’erario meno di 10 milioni di euro l’anno, cioè meno dell’1 per mille. Con la sede sociale in Paesi a fiscalità privilegiata (spesso Irlanda e Lussemburgo, ndr), una struttura societaria complessa, e giocando sui prezzi di trasferimento infragruppo, riescono alla fine quasi a non pagare le imposte, se è vero che in media, a livello mondiale, versano l’1% del fatturato.
La stabile organizzazione
Con la nuova misura, per evitare l’imposizione anche nel paese di residenza, a queste società verrebbe riconosciuto un credito d’imposta pari all’importo delle tasse versate in Italia.
La ritenuta alla fonte, spiega il Corriere della Sera, scatterebbe sul presupposto dell’esistenza di una “stabile organizzazione virtuale” basata sul concetto di una presenza “digitale”, anche se non fisica, “significativa”.
L’obbligo della ritenuta scatterebbe nel momento in cui tale “presenza” viene rilevata sul circuito dei pagamenti, al superamento di determinate soglie (ora è previsto un fatturato di un milione in sei mesi). La ritenuta salirebbe al 30% (come sulle prestazioni in Italia degli artisti stranieri) nel caso, improbabile, che a ricevere i pagamenti sia una persona fisica.
Si comincia, quindi, a stringere il cerchio intorno alle multinazionali di internet che ricorrono ai sistemi di ottimizzazione fiscale per pagare meno tasse, traghettando i profitti verso Paesi con regimi tributari più compiacenti.
Parliamo dei cosiddetti paradisi fiscali contro i quali la Commissione Ue ha annunciato l’ennesimo giro di vite. E anche l’OCSE si è attivata su questo fronte, siglando lo scorso settembre un accordo con il G20 contro l’elusione fiscale.