Com’è noto, uno dei più evidenti effetti nell’immediato delle Olimpiadi è una repentina crescita dei buoni propositi in ambito sportivo da parte degli spettatori. Dopo aver visto per giorni e giorni epiche imprese di atleti che nuotano per dieci chilometri, corrono per quaranta, sprintano velocissimi o saltano distanze impensabili – mostrano, cioè, tutte le potenzialità del nostro corpo – è con un sentimento a metà tra il sincero desiderio di muoverci un po’ e il complesso di colpa che ci proponiamo, appena arriverà settembre e farà meno caldo, di iscriverci in palestra, o iniziare a fare jogging tutte le sere, o di smettere di fingere di aver cambiato numero di telefono quando ci chiamano gli amici il giovedì sera per il calcetto. È quello che succede anche a Capodanno, ma le Olimpiadi hanno le capacità di esulare dalle generiche buone intenzioni in direzione di imprese sportive più o meno possibili. Il passo successivo, di solito, è provvedere all’acquisto di tutto ciò che serve, dalle scarpe ipertecnologiche alle magliette in tessuti ultratraspiranti – e quest’anno, soprattutto, qualcosa che abbiamo visto usato da quasi tutti gli atleti: i wearable, i dispositivi indossabili come gli smartwatch, molto presenti a Tokyo soprattutto durante gli allenamenti o prima delle prove, ma anche in gara.
Era difficile prospettare una migliore campagna di marketing: abbiamo potuto vedere queste Olimpiadi nella loro interezza anche da sdraiati sotto l’ombrellone, grazie ai dispositivi mobili, agli abbonamenti a Discovery+ o DAZN e al basso prezzo delle tariffe per Internet mobile (come sempre, su SOSTariffe.it si possono trovare le proposte più convenienti per connettersi in mobilità risparmiando). E abbiamo visto quanti marchi Apple, Fitbit, Polar, Garmin, ma anche IBM, Xiaomi, Samsung, Huawei, erano al polso o al collo degli atleti, ma non solo. I sistemi più comuni sono quelli che misurano e analizzano i dati vitali degli atleti, la loro posizione, i loro movimenti, raggiungendo un ulteriore grado di complessità quando queste variabili vengono incrociate con l’intelligenza artificiale, il GPS o il cloud computing. Ma, soprattutto per gli allenamenti, ci sono anche costumi in grado di minimizzare l’attrito (cercando i non ricreare la grande polemica sui “supercostumi“, poi vietati, di qualche anno fa), occhiali con realtà aumentata usati dai ciclisti prima di arrivare in Giappone per prendere confidenza coi tracciati olimpici, e perfino tapis roulant antigravità per allenarsi senza correre il rischio di infortunarsi e saltare così l’appuntamento più atteso.
Andiamo verso il “doping tecnologico”?
Se la maggior parte dei dispositivi indossati al polso erano orologi Omega – non una sorpresa, considerando che è la tecnologia ufficiale dei Giochi per la misurazione dei tempi – sono stati visti tanti altri “indossabili” meno canonici. In particolare gli Apple Watch, per la loro comodità e la quantità di funzioni e misurazioni utili, sono stati molto gettonati (anche se non è mancato chi, come lo sprinter USA Cravon Gillespie, non ha resistito al gusto del vintage sfoggiando un Casio tipicamente anni ’80, con tanto di micro-tasti). Ma, come si diceva, è stato soprattutto durante i durissimi allenamenti che i futuri campioni hanno sfruttato tutti i vantaggi dell’ultima tecnologia indossabile. Il che ha fatto storcere il naso a qualcuno, per il quale si tratterebbe di una sorta di “doping tecnologico” destinato ad aumentare il divario tra chi proviene da una nazione con una federazione sportiva ricca – e quindi dotata di tutte le novità in fatto di allenamento sportivo – e chi, invece, utilizza ancora metodi tradizionali.
L’anno scorso era stato vietato un prototipo delle scarpe Vaporfly di Nike proprio perché le triple piastre in fibra di carbonio inserite nella schiuma ultra-compressa potevano dare dei vantaggi non trascurabili agli atleti; polemica che non si è placata nemmeno quest’anno, visto che nei 100 metri, oltre allo splendido tempo del nostro Marcell Jacobs, tanti altri atleti hanno visto sensibili miglioramenti dei loro tempi personali. Ma Sebastian Coe, il numero uno dell’atletica che aveva ammonito nel 2020 a proposito di scarpe in grado di dare vantaggi eccessivi, ha ricordato che la differenza è sempre l’atleta, a prescindere dalla pista veloce o dalle scarpe ad alta tecnologia: «in ogni nuova generazione ci sono delle innovazioni e dei progressi tecnologici. Se la pista della Mondo è veloce io non ho problemi, e nessuno disegna scarpe per andare piano, ma non sono stati abbattuti tutti i record del mondo e dove è accaduto è sempre stato per merito degli atleti». Come dire: la tecnologia può aiutare, ma i miracoli non li fa, se dietro non c’è il talento, il duro lavoro e un regime di allenamento adatto. Ma aspettiamoci che sospetti del genere diventeranno ancora più frequenti in futuro.
Non solo record, ma protezione dagli infortuni
Non si tratta però solo di limare qualche centesimo di secondo e di arrivare prima degli altri: la nuova tecnologia dei wearable può infatti avere utilizzi orientati non soltanto ai più grandi campioni planetari, ma anche pensati per chi, appunto, si limita a fare un po’ di sport per tenersi in forma. Nemmeno gli amatori sono esenti da rischi, infatti: anzi, proprio la volontà di ripartire dopo essere rimasti fermi per qualche mese (anche a causa del lockdown) o la scarsa familiarità con movimenti o superfici particolarmente insidiosi può essere la causa di infortuni piuttosto seri.
Ecco perché, oltre a monitorare quanti chilometri abbiamo fatto, se abbiamo battuto il nostro record personale della settimana prima e se le nostre pulsazioni sono a posto, è molto importante anche prevenire il più possibile situazioni di rischio. Secondo un articolo pubblicato su The Conversation da John Barden, professore di biomeccanica all’università di Regina, «non è irrealistico immaginare un futuro non troppo distante in cui piccoli sensori posizionati in una scarpa o negli occhialini per il nuoto miglioreranno non soltanto la performance atletica, ma saranno in grado di comunicare a un corridore dilettante il rischio di infortunio legato a un particolare ritmo di falcata». La grande sfida è, in particolare, riuscire a gestire l’immensa quantità di dati che i dispositivi indossabili generano e inviano per la loro analisi, una mole che rischia di essere opprimente quando gli atleti monitorati sono particolarmente numerosi o vengono coinvolte diverse sessioni di allenamento. E qui l’intelligenza artificiale darà una grossa mano, impedendoci di crollare a terra rantolanti pochi secondi dopo esserci detti «proviamo ad accelerare un po’».