Venezuela, milioni di no alla Costituente di Maduro
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Almeno un morto, una affluenza piu’ che massiccia – si parla di oltre sette milioni di elettori -, e un forte segnale politico al governo di Niicolas Maduro. Sono i titoli principali della “consultazione popolare” indetta dalle opposizioni al governo venezuelano di Nicolas Maduro. I partecipanti erano chiamati ad esprimersi su tre quesiti, il piu’ importante dei quali riguardava la volonta’ di “respingere o accettare” la convocazione di un’Assemblea costituente per redigere una nuova Carta costituzionale. Le elezioni per comporre la Costituente, duramente contestate fuori e dentro il paese, si celebreranno a fine mese e non potranno essere fermate dal voto di ieri: la consultazione e’ stata infatti promossa dal Parlamento, organo attualmente controllato dall’opposizione e i cui poteri sono disconosciuti dall’esecutivo. E manca il visto buono del Consejo nacional electoral (Cne), l’autorita’ elettorale che ne avrebbe i poteri. Ma a pochi sfugge il peso politico dell’operazione. La Mesa de unidad democratica (Mud), il cartello delle opposizioni al governo, ha aperto seggi in 559 citta’ di 101 paesi, sparsi tra le Americhe e l’Europa, ma anche l’Africa. Sui media internazionali rimbalzano foto di seggi aperti un po’ in tutto il mondo e il quotidiano “El Pais” dedica un servizio al voto celebrato nella sparuta comunita’ a Maputo, Mozambico, dove i venezuelani sono 20, compreso quelli della missione diplomatica: dei 15 aventi diritto, 11 si sono presentati al gazebo. La commissione dei garanti istituita dalla Mud parla di 7.186.170 voti espressi, con una schiacciante vittoria del no alla costituente. “Matematicamente” Maduro e’ caduto, esulta il presidente del Parlamento Julio Borges. E la speranza che l’esito del voto sia preso in considerazione e’ nutrita ad alta voce dai governi di Messico e Canada, alcuni tra i paesi piu’ impegnato nella campagna internazionale di pressione su Caracas per la soluzione della crisi in atto. In una nota in cui si esprime rammarico per i nuovi incidenti, il ministero degli Esteri messicano si augura che i risultati “siano ascoltati e presi in dovuta considerazione”. Poco dopo il ministero degli Esteri venezuelano dichiarava persona no grata l’ex presidente messicano Vicente Fox, giunto nel paese caraibico come per esprimere il suo appoggio alla causa delle opposizioni. Il Canada ha parlato “dei milioni di persone che hanno avuto il coraggio di partecipare, nonostante la codarda violenza e la censura”, inviando “un messaggio chiaro al governo del Venezuela: i venezuelani vogliono conservare i diritti fondamentali consacrati nella Costituzione del 1999”. recita la nota del ministero degli Esteri rimandando alla Carta approvata dall’ex presidente Hugo Chavez. Nella stessa giornata si celebrava anche un appuntamento indetto dal governo, le “prove generali” del voto per l’Assemblea costituente che si terra’ il 30 luglio. Tra i tanti, il quotidiano “El Pais” si occupa di riferire che in questo caso i seggi sono praticamente vuoti anche se il canale “Telesur”, vicino al governo, mostra foto con seggi assediati da entusiasti elettori. Rispetto all’entita’ della partecipazione, fanno notare i media locali, il numero di scontri e’ stato relativamente basso, ma il bilancio e’ ugualmente drammatico. Compilare la cronaca dei fatti, al solito, non e’ semplice. Le opposizioni denunciano l’uccisione di due partecipanti al voto e quattro feriti, i media indipendenti e la procura nazionale ne certificano almeno uno: si tratta di Xiomara Escot, 61 anni, morta durante gli scontri registrati a Catia, localita’ non lontana dalla capitale Caracas. L’affollato corteo che si stava svolgendo in un’ampia arteria cittadina e’ stato interrotto dall’intervento di civili armati considerati vicini all’esecutivo, i cosiddetti “colectivos”. Agli spari sono seguiti gli scontri e la fuga di diversi manifestanti che hanno trovato rifugio in una Chiesa locale.
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L’Iran condanna un universitario Usa a 10 anni di reclusione con l’accusa di spionaggio
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Uno studente statunitense della Princeton University e’ stato arrestato in Iran e condannato a dieci anni di reclusione con l’accusa di spionaggio. Lo ha annunciato domenica un portavoce del ministero di Giustizia iraniano, Gholam Hossein Mohseni-Ejei. Dello studente di storia 37 enne, Xiyue Wang, si erano perse le tracce alcuni mesi fa; si trovava in Iran come ricercatore per una tesi di dottorato; sino a ieri l’ipotesi di un suo arresto era circolata soltanto sotto forma di indiscrezione. Il funzionario iraniano che ha confermato l’arresto e la condanna ha definito Wang “uno degli infiltrati americani” nel paese, ma non ne ha fatto espressamente il nome. A chiarire l’identita’ dell’arrestato, sempre domenica, e’ stata invece l’agenzia d’informazione “Mizan”, secondo cui il dottorando statunitense aveva una “rete di contatti” con le agenzie di intelligence statunitensi e britanniche. stando all’agenzia, Wang parlava fluentemente il farsi; nei suoi computer gli investigatori avrebbero scoperto 4.500 pagine di documenti iraniani. Un portavoce dell’universita’ di Princeton ha confermato l’identita’ dell’arrestato, e riferito di essere impegnata da mesi in uno sforzo privato con le autorita’ statunitensi per tentare di ottenerne il rilascio. La notizia dell’arresto di Wang giunge in concomitanza con quella dell’arresto del fratello del presidente iraniano Hassan Rohani, accusato di corruzione.
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Qatar, gli Emirati Arabi avrebbero innescato la crisi hackerando i media di Doha
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Gli Emirati Arabi Uniti hanno orchestrato l’hackeraggio dei siti d’informazione governativi e dei social media del Qatar lo scorso maggio, inserendovi false dichiarazioni incendiarie attribuite all’emiro del Qatar, Sheikh Tamim Bin Hamad al Thani, che hanno scatenato l’attuale crisi diplomatica tra Doha e i suoi vicini sunniti. A scriverlo e’ la “Washington Post”, che cita fonti dell’intelligence statunitensi secondo cui proprio quest’ultima ha raccolto informazioni in merito alla pianificazione dell’attacco informatico da parte del governo emiratino. Stando al quotidiano, l’intelligence statunitense ha esaminato la scorsa settimana informazioni inerenti la pianificazione dell’attacco informatico da parte di funzionari del governo emiratino, ma non e’ ancora chiaro se quest’ultimo abbia scatenato l’attacco direttamente, oppure lo abbia commissionato a terzi. L’hacking dei siti di informazione qatarini sarebbe avvenuto il 24 maggio scorso, poco dopo la visita del presidente Usa Donald Trump all’Arabia Saudita, dove aveva incontrato i leader del Golfo Persico e aveva spronato questi ultimi a combattere con decisione il terrorismo islamico. Di li’ a pochi giorni Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto hanno imposto l’embargo commerciale a Doha e bandito i media pan-arabi qatarini puntando l’indice proprio contro i presunti commenti dell’emiro del Qatar, che avrebbe definito l’Iran una “potenza islamica” ed elogiato pubblicamente il partito militante sciita libanese Hezbollah. In realta’, l’emiro al Thani non avrebbe mai dichiarato nulla di simile: le “false” dichiarazioni sarebbero state inserite dagli hacker nei siti di Al Jazeera e come didascalie in alcuni video su Youtube dell’agenzia di stampa ufficiale del Qatar, “Qatar News Agency”. In risposta alla rivelazione della “Washington Post”, un portavoce dell’ambasciata del Qatar ha sottolineato le recenti dichiarazioni del procuratore generale di Doha, Ali Bin Fetais al Marri, secondo cui il paese dispone prove che “alcuni iPhone di paesi impegnati nell’assedio del Qatar sono stati utilizzati per l’hackeraggio”. Il Qatar denuncia da settimane un attacco informatico ai suoi danni da parte dei vicini sunniti, ma ad oggi non ha fornito alcuna prova. Gli Emirati hanno prontamente denunciato le rivelazioni della “Washington Post”, definendole “False”: “Gli Emirati Arabi Uniti non hanno nulla a che fare con il presunto attacco informatico descritto nell’articolo”, recita un comunicato dell’ambasciatore emiratino a Washington, Yousef al Otaiba. “Quel che invece e’ certo e’ l’atteggiamento del Qatar. il finanziamento, il sostegno e l’appoggio agli estremisti, dai talebani, ad Hamas sino a Gheddafi. L’incitamento alla violenza, incoraggiamento della radicalizzazione, il danneggiamento della stabilita’ dei suoi vicini”. Dall’intelligence Usa, da cui come ormai da prassi hanno avuto origine le indiscrezioni anonime, non giunge per ora alcun commento ufficiale. Il dipartimento di Stato Usa, per ora, si limita invece ad ammettere che almeno per il momento la netta frattura tra il “blocco” saudita e il Qatar non evidenzia alcun segnale di ricomposizione. “Non ci aspettiamo alcuna soluzione a breve termine”, ha dichiarato sabato un collaboratore del segretario di Stato, Rex Tillerson. questi, ha aggiunto il funzionario, ha presentato ai paesi coinvolti “una serie comune di principi su cui tutti i paesi possano concordare, cosicche’ si possa partire (…) da una base comune”. La crisi in corso nel Golfo, ricorda la “Washington Post”, pone gli Stati Uniti in una posizione scomoda: tutti i paesi fanno parte infatti della coalizione a guida statunitense che combatte lo Stato islamico, e la base aerea qatarina di al Udeid e’ il fulcro delle operazioni aeree statunitensi nella regione: la base ospita 10 mila militari Usa e il comando regionale delle forze armate statunitensi, mentre il Bahrein – uno dei paesi che hanno aderito all’embargo contro Doha – e’ la sede della Quinta flotta della Marina Usa. La crisi ha anche creato una frattura a Washington: il presidente Donald Trump, infatti, e’ tendenzialmente schierato a sostegno degli Emirati Arabi e soprattutto dell’Arabia Saudita; il dipartimento di Stato, invece, ha sostenuto Doha e sta tentando una mediazione tra le parti.
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Brexit, Tajani: L’europarlamento firma solo se rispettati i diritti dei cittadini
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Non cambiare i diritti degli europei che vivono nel Regno Unito, trovare soluzioni soddisfacenti per la frontiera con l’Irlanda e un accordo sulla questione economica. Sono le tre condizioni che il Parlamento europeo mette per poter dare i proprio via libera al negoziato che uscira’ dal Brexit, assicura il presidente Antonio Tajani in una lunga intervista al quotidiano spagnolo “La Vanguardia”. “I britannici hanno approvato il bilancio europeo per il 2014-202 e noi gli chiediamo che rispettino questo accordo, ne piu’ ne meno”, spiega Tajani. “Priorita’ delle priorita’”, rimane comunque il rispetto “dei diritti dei cittadini” e dei tre milioni di europei che vivono oltre manica. Se dopo il Brexit non ci saranno gli stessi diritti di oggi, il Parlamento europeo non votera’ l’accordo”, assicura Tajani che ricorda la necessita’ di portare a termine le trattative per l’uscita di Londra dall’Unione nei tempi prescritti. “Non possiamo aggiungere altro tempo ai negoziati. Dobbiamo concludere prima delle elezioni europee del 2019. Possiamo votare l’accordo tra marzo e aprile, anche se sarebbe gia’ complicato. Per questo e’ importante concludere il primo accordo entro la fine dell’anno. E’ un problema dei britannici, non nostro, Sono loro che vogliono andarsene dell’Unione europea, e’ loro responsabilita’ quella di finire in tempo i negoziati”. L’esponente di Forza Italia parla poi dell’emergenza migranti, segnalando che il problema “non e’ l’oggi, ma il domani. Oggi sono migliaia, nei prossimi anni saranno milioni. Per questo e’ importante lavorare in Africa con una strategia europea”, un vero e proprio piano Marshall. Occorre capire i profondita’ la situazione in un continente dove “cambio climatico, terrorismo, demografia, e guerre”, rappresentano una miscela esplosiva. Anche per non ripetere gli errori del passato, come successo con la gestione di alcune delle crisi nei dei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo. “L’errore”, ricorda Tajani, e’ stato quello di uccidere Gheddafi: “gli anglosassoni pensavano che dopo Gheddafi sarebbe arrivata in Libia la camera dei Comuni ma no, non sono arrivati i lord ma i terroristi, i Fratelli musulmani, il Daesh, i trafficanti di armi e persone”.
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Regno Unito, per l’inviato della City la Francia vuole “la piu’ dura delle Brexit”
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – La Francia vuole “la piu’ dura delle Brexit” e sarebbe felice di un esito dei negoziati a sfavore del Regno Unito: e’ quanto emerge da promemoria inviato al Tesoro britannico, a membri della Camera dei Comuni e di istituzioni finanziarie da Jeremy Browne, rappresentante a Bruxelles della City, il distretto della finanza di Londra. Browne, riferisce il “Financial Times”, ha raccontato di aver partecipato a un terribile incontro alla Banca di Francia, “il peggiore mai avuto in tutta l’Ue”. La banca centrale francese, a suo parere, e’ per la disaggregazione dei servizi finanziari, nonostante i costi, e “considera la Gran Bretagna e la City di Londra come avversari, non come partner”. Secondo lui sull’obiettivo di ridimensionare il Regno Unito converge un “impegno collettivo di tutta la Francia”, reso “piu’ assertivo” dall’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza; l’aggressivita’ francese preoccupa anche altri Stati membri, che vorrebbero mantenere una “relazione amichevole” col paese uscente. Parigi, prosegue Browne, sta “andando oltre” il tentativo di approfittare delle opportunita’ offerte dalla Brexit, “rifiutando il modello di partnership con la Gran Bretagna” e sembrando soddisfatta di un esito negativo per Londra anche se non ne traesse un vantaggio diretto. La Francia non ha mai fatto mistero delle sue ambizioni per il dopo Brexit, annunciando misure per attrarre le imprese internazionali. L’ex governatore centrale Christian Noyer, ha dichiarato che “Londra rimarra’ un grande centro finanziario” ma che deve accettare “che alcune operazioni si sposteranno sul continente”. I nodi principali sono il “passaporto” dei servizi finanziari e il clearing sui derivati denominati in euro.
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Regno Unito, governo diviso mentre riprendono i negoziati a Bruxelles
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Il segretario del Regno Unito per l’Uscita dall’Unione Europea, David Davis, riferisce il quotidiano britannico “The Times”, e’ a Bruxelles oggi per il secondo round di incontri negoziali sulla Brexit con la Commissione europea, in un momento delicato per il suo governo, diviso sull’ipotesi di un accordo di transizione. Liam Fox, segretario al Commercio internazionale, si e’ espresso per una fase transitoria “molto limitata”, mentre il cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond, ha colto la perdita della maggioranza assoluta del Partito conservatore alle elezioni politiche anticipate dell’8 giugno come un’opportunita’ per premere per un’intesa sulle dogane piuttosto lunga: si parla di anni. Un accordo di transizione ritarderebbe il processo di uscita dall’Ue e impedirebbe al paese uscente di concludere trattati commerciali con paesi terzi, rendendo di fatto irrilevante il ruolo di Fox. Quest’ultimo, in un’intervista televisiva alla Bbc, l’emittente pubblica, ha chiarito il suo punto di vista, sostenendo che la liberta’ di fare accordi nel periodo di transizione dovrebbe essere posta come condizione; in caso contrario, sarebbe difficile cogliere le opportunita’ offerte dalla Brexit. Al tempo stesso Hammond ha ribadito che una fase transitoria sarebbe molto importante per ricostruire la fiducia delle imprese e dei consumatori ed evitare un “atterraggio brusco”. Mentre il primo ritiene accettabile una transizione di “pochi mesi”, il secondo pensa a una durata di “un paio d’anni”. Il cancelliere e’ al centro di un caso: da un gabinetto dei ministri sono trapelati alcuni suoi appunti, in particolare commenti sui lavoratori pubblici “iperpagati”, che hanno suscitato polemiche. Il titolare del Tesoro ha accusato i Brexiter intransigenti per la fuga di notizie, con l’obiettivo di colpire il suo tentativo di ammorbidire la posizione sulla Brexit: “Questo rumore e’ stato provocato da persone che non sono contente dell’agenda che ho tentato di proporre nelle ultime settimane, per fare in modo di arrivare a una Brexit che dia priorita’ alla tutela dell’economia, dei posti di lavoro e degli standard di vita”, ha dichiarato a una trasmissione televisiva.
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Francia, la destra contro l’abolizione della tassa sulla casa
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – La promessa fatta in campagna elettorale dal neopresidente francese Emmanuel Macron di abolire la tassa sulla casa preoccupa le amministrazioni comunali: un’inquietudine che la destra intende sfruttare per iniziare a costruire un’opposizione politica al nuovo regime macronista; lo ha confermato al quotidiano “Le Parisien” il presidente dell’Associazione dei sindaci di Francia (Amf), François Baroin, uno dei nuovi leader del principale partito della destra erede del gollismo, quello dei Repubblicani (Lr, ex Ump). Nell’intervista Baroin promette battaglia alla prima Conferenza dei territori che si chiudera’ oggi lunedi’ 17 luglio con la partecipazione del presidente Macron: nel suo mirino c’e’ appunto la tassa sulle abitazioni che il governo vorrebbe sopprimere per l’80 per cento delle famiglie. Alla testa dei sindaci, Baroin sostiene che la soppressione di questa imposta sarebbe incostituzionale ed obbietta che sarebbe “ingiusto” abolirla solo per la maggior parte dei cittadini ma non per altri. L’obiettivo comunque, come traspare dall’intervista al “Parisien”, e’ di alzare il prezzo delle trattative tra il governo e le amministrazioni locali: l’esecutivo infatti ha promesso trasferimenti di fondi per ovviare al mancato gettito fiscale che deriverebbe per i Comuni; il rischio e’ che i negoziati alla fine vanifichino l’intenzione del governo di realizzare sostanziali risparmi anche a livello locale per contribuire a partire dal prossimo anno ad un piu’ deciso taglio dell’imposizione fiscale. Aldila’ del merito della questione, e’ chiaro che I Repubblicani puntano sul loro predominio nelle amministrazioni locali per rafforzare la propria opposizione parlamentare nel Senato, che e’ appunto eletto da una platea di “grandi elettori” costituita appunto dai consiglieri comunali di tutta la Francia. Una battaglia tutta politica a cui si intreccia quella per la leadeship dei Repubblicani, che in autunno eleggeranno il presidente del partito: il “cavallo di razza” Baroin nell’intervista apparentemente si tira indietro, auspicando un “rinnovamento generazionale”. Ma e’ chiaro dal tono delle sue risposte che sta attendendo di valutare quale seguito effettivo possano raccogliere i candidati alla leadership Repubblicana gli esponenti che si sono gia’ fatti avanti, a cominciare dalla vulcanica presidente della Regione Ile-de-France, la piu’ importante del paese: e infatti Baroin annuncia che non appoggera’ nessun candidato, in nessun caso.
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L’Isis si riorganizza in Libia
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – I vasti deserti nella parte meridionale della Libia sono in mano gia’ da anni a miliziani provenienti dai paesi limitrofi: mercenari, contrabbandieri e altri criminali. In quell’area si starebbe riorganizzando anche lo Stato islamico, le cui milizie sono state cacciate da Sirite. L’area e’ in bali’a di reclutatori e di addestratori che preparano le reclute dell’Isis ad attentati e combattimenti. Nelle aree remote lungo i confini con l’Egitto, il Sudan, il Ciad, l’Algeria, il Niger e la Tunisia e’ facile ottenere armi. Il contrabbando di persone e merci prolifera incontrollato, scrive il quotidiano tedesco “Handelsblatt”, ed e’ particolarmente redditizio quello della benzina. Non esistono controlli efficaci alle frontiere, e cosi’ anche i ribelli di Sudan e Ciad vi si stanziano ed effettuano da li’ attacchi transfrontalieri contro i governi dei loro Paesi. Con loro ci sono mercenari venuti dal lontano Camerun. Secondo il generale di brigata Abdullah Nuredeen dell’Esercito nazionale libico le milizie si muovono tra il centro e il sud del paese: “Rubano le auto dei viaggiatori civili. A volte operano vicino al confine se possono fare soldi dal contrabbando e dal traffico di armi”. Molti sono stati espulsi dalle citta’ costiere di Sirte, Bengasi, Derna e Sebratha. Claudia Gazzini, analista della Libia per l’International Crisis Group, sottolinea che i combattenti dell’Isis si sono nascosti a Sud della linea costiera nel deserto. Si muovono in piccoli convogli in modo da non attirare l’attenzione. Altri sono ancora attivi nella zona intorno a Sirte. L’Isis, avverte Gazzini, sta cercando di ottenere influenza e controllo sui gruppi che combattono contro il generale Khalifa Belqasim Haftar, sostenuto dall’Egitto e responsabile della sua espulsione da Sirte. L’Egitto ha iniziato a monitorare da vicino i suoi confini con il Sudan e la Libia. La preoccupazione e’ che queste regioni possano diventare le basi per gli attacchi sul territorio egiziano. Si stima che circa 120 mila combattenti siano ora attivi in Libia, e di questi circa mille facciano parte dell’Isis. Il generale Haftar ha cercato di scacciare i combattenti islamici e portare il Centro e il Sud del Paese sotto il suo controllo. Il suo obiettivo, afferma, e’ quello di sigillare i confini della Libia con l’Egitto, il Sudan e il Ciad ai primi di luglio, al fine di fermare il flusso di armi, combattenti e migranti. L’obiettivo, per, potrebbe essere oltre la portata delle sue forze.
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Germania-Turchia: nuova disputa sulle visite parlamentari ai militari nelle basi Nato
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Il segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha chiesto a Germania e Turchia di giungere a un accordo sul divieto opposto ai parlamentari tedeschi di visitare i militari di stanza nella base turca di Konya. Nel fine settimana si sono incontrati i ministri degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, e il suo omologo tedesco Sigmar Gabriel. La Turchia ha rinviato la visita dei parlamentari tedeschi a tempo indeterminato, come aveva fatto per quelle al contingente di Incirlik, che Berlino ha deciso di trasferire in Giordania. “Ci auguriamo che la Germania e la Turchia possano trovare una data reciprocamente accettabile per la visita”, ha dichiarato Stoltemberg sabato scorso. Il capogruppo parlamentare dell’Spd, Thomas Oppermann ha chiesto che il cancelliere Angela Merkel chiarisca in linea di principio il diritto di visita del Bundestag nei confronti dei soldati tedeschi a Konia con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. “Senza le visite ai soldati tedeschi non possiamo rimanere a Konya”, ha dichiarato il politico socialdemocratico. Della stessa opinione il deputato della Linke Sevim Dagdelen e quella dei Verdi Agnieszka Brugger. Il portavoce della politica estera del gruppo parlamentare della Cdu, Juergen Hardt, ha invece affermato: “La partecipazione della Germania alle operazioni congiunte degli Awacs della Nato non e’ negoziabile a mio parere, con o senza visite dei deputati”. Il portavoce della Difesa, Henning Otte, ha definito la politica di Erdogan “miope e pericolosa”.
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L’Italia accelera la cessione dei crediti a rischio delle sue banche
17 lug 11:10 – (Agenzia Nova) – Debutto trionfale nei giorni scorsi per la quotazione di doBank alla Borsa di Milano, il titolo della banca ha guadagnato il 13,89 per cento nella sua prima seduta: da questa notizia parte un’analisi del quotidiano economico francese “Les Echos” dedicato alla questione dei crediti a rischio che appesantiscono i bilanci delle banche italiane. Secondo il corrispondente da Roma Olivier Tosseri, sta fortemente accelerando in Italia la cessione di questi crediti, indicati nell’articolo con la sigla inglese NPL (per “crediti non performanti”): e doBank e’ il piu’ grande gruppo specializzato su questo particolare mercato in Italia, che si sta giusto strutturando ed offre dunque grandi prospettive di crescita e di espansione. L’Italia, ricorda Tosseri, lamenta un terzo del totale degli Npl in Europa e le banche italiane nei loro bilanci ne detengono ancora quattro volte piu’ della media europea: nell’ultimo anni questa massa e’ scesa di 2 miliardi di euro e questo calo e’ in via di accelerazione con il varo di una serie di operazioni che entro la fine dell’anno hanno per obbiettivo un totale compreso tra i 60 ed i 70 miliardi; tra queste ci sono la vendita di 17,7 miliardi di Npl di UniCredit, i 28 miliardi di Monte dei Paschi di Siena e ancora i quasi 17 miliardi delle banche venete appena salvate dal fallimento. La Banca centrale europea (Bce) emettera’ in autunno il suo verdetto sui piani di cessione dei crediti a rischio che gli sono stati sottoposti dalle banche italiane: secondo gli analisti dello studio PriceWater Cooper (Pwc) citati da “Les Echos”, il mercato italiano di questi Npl e’ gia’ “vario e dinamico” e beneficia di importanti fattori congiunturali, come la ripresa dell’economia che secondo le ultime previsioni quest’anno dovrebbe crescere dell’1,4 per cento e ormai conta su un’ampia varieta’ di attori. Oltre a doBank che e’ appoggiata da investitori a lungo termine e da hedge funds, ci sono infatti il fondo Atlante e la Societa’ per la Gestione degli attivi (Sga) creati dal governo italiano per sostenere le operazioni di cartolarizzazione degli Npl e i grandi fondi anglosassoni che detengono circa il 30 per cento dei crediti a rischio; ed in questo mercato presto potrebbe aggiungersi un altro attore: una “bad bank” nazionale, una soluzione a cui Bruxelles non si opporrebbe piu’. Meglio tardi che mai, dicono le autorita’ bancarie italiane che avrebbero preferito che la “bad bank” fosse stata messa in piedi all’inizio della crisi che ha colpito il settore; resta pero’ da vedere a quale prezzo gli Npl saranno messi in vendita: il rischio e’ che un ribasso eccessivo metta in sofferenza il livello di capitalizzazione degli istituti bancari italiani portandoli ad infrangere le regole europee sugli aiuti di Stato.
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