Si apre un nuovo fronte di conflitto nel settore della banda ultralarga e in particolare nell’ambito della realizzazione delle nuove reti nelle aree a fallimento di mercato. A luglio – ma la notizia è circolata solo oggi – Telecom Italia ha infatti presentato ricorso al TAR contro Agcom, MISE e Infratel, contestando quello che a parere della società potrebbe configurarsi come una discriminazione nei suoi confronti.
Una decisione quella di fare ricorso, che, come ha precisato a Key4biz una fonte vicina all’azienda, non è contro la strategia BUL del Governo, tra l’altro approvata anche dalla Commissione europea, ma riguarda un tema di regolamentazione e “mira a evitare storture che poi andrebbero a danno dei consumatori”.
Che Telecom avesse notato qualcosa di anomalo nello schema complessivo messo a punto nei mesi scorsi per dotare le aree a fallimento di mercato di una rete ultrabroadband, lo si era capito. Da mesi la società ribadisce in ogni sede deputata la necessità di un contesto regolatorio uguale per tutti, che metta cioè tutte le imprese nelle stesse condizioni di competere. Anche in un’audizione al Senato, svoltasi poco prima di depositare il ricorso, l’ad Flavio Cattaneo aveva affermato che “…le regole devono essere applicate a tutti, non solo a noi, e devono essere uguali per tutti. Inoltre devono essere date prima”.
La parità di trattamento, secondo Telecom, sarebbe di fatto inficiata dalla delibera Agcom 120 del 2016 che individua le condizioni di riferimento per l’accesso all’infrastruttura finanziata con fondi pubblici nelle aree a fallimento di mercato.
Il gruppo contesta in particolare la parte del provvedimento che regola la vendita wholesale indicando che i prezzi devono essere applicati a condizioni eque e non discriminatorie.
La delibera, secondo il ricorso, farebbe sì che a Infratel non siano applicate le stesse regole che valgono per Telecom Italia. In tal modo, la società in house del Mise – che costruirà la rete ultrabroadband per conto dello Stato nelle aree a fallimento di mercato, assumendo in tal modo il ruolo di ‘operatore dominante’, per poi darla in concessione ad altri operatori – potrà fissare le tariffe senza effettuare i cosiddetti ‘test di prezzo‘ previsti per altro dalle normative europee.
Il regolatore, in sostanza, non ha effettuato come avrebbe dovuto un test economico e valutare i costi sostenuti per la realizzazione della rete, per poi fissare le tariffe su questa base, un po’ come avviene, ad esempio, per le tariffe di unbundling. Questo stato di cose finirebbe per favorire gli altri operatori che non essendo assoggettati a nessun controllo potranno offrire prezzi più bassi e senza preoccuparsi che i concorrenti siano in gradi di replicare le loro offerte.
Senza tenere conto del fatto che in molte delle aree in cui è previsto l’intervento diretto del Governo (4.300 comuni dove risiedono circa 9,4 milioni di persone) Telecom Italia ha già realizzato la propria rete. C’è quindi il rischio concreto che quando lo Stato avrà completato le reti ultrabroadband, i clienti Telecom potrebbero essere giustamente tentati di abbandonare le vecchie reti fisse o mobili per le nuove e più performanti connessioni offerte a prezzi più bassi e chi, come Telecom, aveva già investito soldi propri verrebbe di fatto penalizzato.
Per rendere l’idea, è come se in un quartiere in cui le case sono già a buon mercato, lo Stato e costruisse un grattacielo per poi affittare gli appartamenti a prezzi stracciati. È chiaro che gli imprenditori che avevano investito soldi propri in quell’area rischiano di essere buttati fuori dal mercato.
Potrebbe dunque profilarsi un comportamento anticoncorrenziale sotto forma di dumping? Il problema, al di là della questione inerente il mercato tlc e le aree cosiddette a fallimento di mercato, sembra riguardare più in generale la libertà d’impresa e la possibilità che lo Stato possa o meno avere il diritto di danneggiare le attività già in essere e le revenues di imprenditori privati.