Ogni nostro messaggio pubblicato sui social contiene emozioni, stati d’animo, sentimenti, desideri, paure e speranze. Tutti contenuti invisibili, che trovano però il modo di manifestarsi, nella scelta delle parole, nel tono impresso ad un post e nell’impiego o meno di faccine che sorridono o piangono (gli emoticon).
Nei tweet l’impronta digitale del nostro stato d’animo, lo studio sui social
I social network sono dei circuiti umorali che connettono emotivamente interi popoli. Gli studiosi Eric Mayor e Lucas Bietti, rispettivamente dell’Università di Neuchâtel e della Norwegian University of Science and Technology, hanno sviluppato un sistema di “monitoraggio emotivo” dei post su Twitter da cui estrapolare dati grezzi ma significativi dello stato d’animo degli utenti.
Lo studio, dal titolo “Twitter, time and emotions”, pubblicato sulla rivista “Royal Society Open Science”, è stato realizzato a partire dai dati contenuti in 25 milioni di tweet inviati in diverse popolose contee degli Stati Uniti. Per lo più si è trattato di tweet autoreferenziali, del tipo: “Oggi voglio o non voglio fare questo”; “Non mi va di andare in quel posto”; o “Che bello domani farò questa cosa o incontrerò questa persona”.
Le nostre emozioni in rapporto alla salute e al lavoro
Due le scoperte di rilievo: il nostro umore è legato allo stato di salute del fisico, sia nel breve che nel lungo termine; ma è legato anche ad altri fattori, come lo stress lavorativo, il tipo di rapporto con i colleghi e il management, il carico di impegni e le responsabilità.
La prima parte dello studio è quindi relativa alla dimostrazione che esiste una correlazione positiva tra stato di salute e stato d’animo sui social, con le emozioni e gli umori che si manifestano nei tweet a seconda di come va la giornata (lavorativa, scolastica, famigliare, sociale, professionale) e a seconda dei dati relativi a ritmo cardiaco, respirazione, pressione, fame, sonnolenza e livello dello stress a cui è sottoposto l’organismo.
La seconda, invece, è dedicata al rapporto diretto che esiste tra stato d’animo di un utente di Twitter e gli impegni lavorativi. A partire dai tweet esaminati negli USA, si è visto che il lavoro ha un impatto molto negativo sull’umore delle persone.
I ricercatori hanno scoperto che le persone sembrano essere più cupe, tristi e preoccupate dal lunedì al giovedì circa, poi già dalla seconda parte di giovedì inizia una fase in cui l’umore migliora, con il culmine tra venerdì sera e domenica mattina.
Già dalla domenica pomeriggio in molti manifestano leggeri stati depressivi. Altra scoperta è che nel singolo giorno le persone si sono mostrate più tristi nei contenuti dei tweet almeno fino all’ora di pranzo, o prime ore del pomeriggio, per poi migliorare d’umore verso la fine della giornata.
Il “Sabato del villaggio” dei social
Più lontani siamo dal lavoro meglio stiamo? A quanto pare sì. “Tweet sano in corpore sano”? Sicuramente.
Insomma, neanche nei post sui social possiamo nascondere cosa proviamo, perché c’è sempre il modo di trovare traccia del nostro stato d’animo. Il lavoro è necessario, ma allo stesso tempo fonte di forte malessere. Così come una vita frenetica e uno stile di vita sbagliato determinano ripercussioni notevoli sull’umore di ognuno di noi.
È un po’ come se nel nostro nuovo mondo digitale la parabola leopardiana del “Sabato del villaggio” tornasse a nuova vita, una volta applicata ai risultati della ricerca svizzero-norvegese, che vede nell’approssimarsi del fine settimana un motivo di serenità e di piacere ampiamenti condivisi dalla maggioranza delle persone: “Questo di sette è il piú gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier fará ritorno”.
Ad esser sinceri, questi risultati non colpiscono molto. Sapevamo già, ognun per sé, che il troppo lavoro non rende felici e che una vita complicata e piena di problemi limita i momenti di piacere. Allora perché questa ricerca fa notizia? Probabilmente perché con essa si ha modo di affrontare altri argomenti, tra cui quello della sorveglianza emotiva.
È già da qualche anno che si fa molta attenzione allo stato d’animo delle persone, non solo sui social, ma anche sul posto di lavoro. Invece che il tono dei messaggi/post digitali, si analizzano le condizioni di salute/stato d’animo del lavoratore “in tempo reale” e si valuta il modo migliore di impiegarlo per mantenere alto il livello di produttività/efficienza dello stesso.
Il timore della sorveglianza digitale ed emotiva
Nel 2018, in Cina, alcune imprese di Pechino hanno iniziato a “leggere la mente” degli impiegati attraverso l’impiego di sensori nei cappelli/caschi e nelle tute da lavoro. i dati vengono inviati in tempo reale ad una piattaforma dove intelligenza artificiale e sistemi di big data analytics li elaborano per trovare le informazioni di base utili al management per comprendere cosa fare per migliorare la situazione.
Tra queste troviamo la Hangzhou Zhongheng Electric (che produce dispositivi elettronici), la State Grid Zhejiang Electric Power (che opera nel settore elettrico) e altre al lavoro nell’alta velocità Pechino-Shanghai.
Oggi in Cina, inoltre, c’è l’obbligo di riconoscimento facciale per chiunque possieda uno smartphone e ora spunta una nuova tecnologia per il controllo delle emozioni e degli stati d’animo delle persone. Le prime applicazioni sono state effettuate in 300 luoghi specifici, tra prigioni, centri di detenzione e strutture di custodia, con un network interno di circa 60 mila telecamere digitali in grado di rilevare appunto emozioni e stati d’animo degli internati.
Ulteriori applicazioni saranno estese alle scuole e ai centri per anziani, poi sarà la volta dei centri commerciali. Ma questo purtroppo non accade solo in Cina, progetti simili sono stati sviluppati anche negli Stati Uniti, in Corea del Sud, in Giappone e nel Regno Unito (in via sperimentale).
La prima vittima del controllo è la libertà
Sembra tutto a posto, in fondo che c’è di male se tramite la tecnologia più avanzata riusciamo a capire se una persona sta male e come aiutarla. Se un lavoratore è stanco lo si può mandare a casa per riposo o spostarlo ad altra mansione meno logorante. Non serve neanche un colloquio tra lavoratore e direttore, basta l’intelligenza artificiale, che elabora i dati e provvedere a suggerire la migliore soluzione.
Il problema è etico e anche linguistico. Possiamo dire che si tratta di monitoraggio, ma qualcun altro potrebbe affermare che si tratta di sorveglianza emotiva. Il rischio è che tali tecnologie rendano più semplice e rapido il controllo delle persone e dei lavoratori entrandogli in testa, capendo al volo dal battito cardiaco e dal tono del linguaggio usato se uno è aggressivo o sottomesso.
Tutti dati che danno informazioni di grande valore economico per un’impresa, utili a prendere provvedimenti. La tecnologia non è neutra, dipende dall’uso che se ne fa. Non è mai un bene violare l’intimità delle persone, perché potrebbe portare a limitazioni crescenti delle “libertà di” e delle “libertà da”.