I neo-puritani del riscaldamento globale stanno prendendo di mira i cocktail. Queste preparazioni, come suggerisce il nome dall’ortografia ‘esotica’, non nascono dalla tradizione italiana e, anticamente – specialmente in un preciso periodo storico in cui tutto doveva tassativamente avere un nome nella lingua nazionale – erano note nel Belpaese come “bevande arlecchine” o “polibibite”. Erano, cioè, dei miscugli – miscele di diversi ingredienti alcolici, non alcolici e aromi – apparsi quando l’usanza comune era quella di bere del vino o, al massimo, un onesto distillato liscio.
Per il momento, l’obiezione degli ecologisti non riguarda tanto il contenuto alcolico, quanto piuttosto l’abitudine dei baristi di ‘guarnire’ le bibite con pezzetti di buccia di limone oppure di lime o, peggio ancora, con fette di frutta che perlopiù non vengono nemmeno mangiate. Uno spreco criminale, nonché un attacco all’ambiente in quanto: “Un chilo di scarti derivati dalle guarnizioni dei cocktail con limone genera all’incirca le stesse emissioni di carbonio di un viaggio di venti minuti in automobile…”. Questo secondo la testata specializzata americana Food & Wine che ha recentemente analizzato la tendenza.
Un po’ di buccia di frutta può bastare per quanto riguarda i cocktail ‘semplici’, come gin and tonic oppure rum e coca. Dove ci si dà da fare con decorazioni elaborate è con i cocktail ‘tropicali’, come il Mai Tai(rum, orange curacao, lime e orzata)o l’elaboratissimo Singapore Sling, prodotto ‘shakerando’ ghiaccio, spremute d’ananas e di limone, gin, triple sec, apricot brandy, Benedictine e qualche goccia di angostura. In questi casi l’eccesso di preparazione presumibilmente giustificherebbe l’eccesso di ornamentazione…
Certo, al confronto di simili creazioni, un semplice Martini cocktail di gin e una goccia di vermut dry – solitamente guarnito con nient’altro che un’oliva – parrebbe un monumento, se non alla sobrietà, almeno alla serietà…