La giornata di ieri è particolarmente interessante, per il giornalista specializzato e lo studioso mediologico: due eventi importanti per le rispettive comunità di riferimento, la presentazione della 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (che si terrà dal 1° all’11 settembre) e la presentazione della relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Parlamento (tenutasi a Montecitorio).
Entrambe le iniziative meritano attenzione, ma qui vogliamo segnalare la (apparente) totale assenza di “connessioni” tra i due eventi che pure, in un sistema mediale ben temperato, dovrebbero avere una qualche relazione: questo isolamento (di target e di audience) è sintomatico della perdurante assenza, in Italia, di una visione “di sistema”, in materia di cultura, media, cinema, spettacolo, arti…
Ancor più, si conferma la grande enfasi che i quotidiani assegnano al Festival di Venezia, che continua ad essere una vetrina preziosa per la produzione cinematografica mondiale, ma che spesso seleziona e premia opere che non vengono distribuite nel mercato.
La gran parte dei film veneziani, infatti, non entrano nel mercato “theatrical”, e soltanto grazie alle piattaforme degli “over-the-top” riesce ad entrare in contatto con il pubblico una parte di opere altrimenti destinate a restare “invisibili”.
Si tratta di una questione sulla quale non ci sembra la critica italiana (la critica cinematografica) si sia mai granché appassionata: il “festival” è quasi sempre un luogo per pochi privilegiati (i critici, giustappunto, oltre che i cinefili), nel quale si ha il piacere di vedere opere quasi sempre destinate all’oblio (dei più), perché escluse dai circuiti tradizionali della distribuzione cinematografica. Un paradosso.
Non ci risulta sia mai stato realizzato uno studio sulle correlazioni tra presentazione di un film ad un festival prestigioso e ricadute commerciali sul mercato delle sale cinematografiche: certo, senza dubbio, la selezione ovvero la premiazione di un film “difficile” (classificato tale secondo le logiche commerciali standard) ad un festival come Venezia o come Cannes stimola la penetrabilità del mercato “theatrical”, ma si tratta di fenomeni che riteniamo dovrebbero essere oggetti di studio.
Oltre i festival: come cambiano i paradigmi dell’offerta e della domanda nell’immaginario audiovisivo?
I paradigmi dell’offerta e della domanda sono cambiati e stanno cambiando radicalmente: ormai la parte prevalente di “fruizione” di immaginario audiovisivo avviene attraverso la televisione e le piattaforme, e la “sala cinematografica” rappresenta veramente la punta di un iceberg, che poco è stato esplorato nelle dinamiche del consumatore.
In Italia, l’unico studio in materia risale ad oltre tre anni fa: si tratta di “Sala e salotto. Il biglietto mancato”, presentato a fine marzo 2018 da Michele Casula di Ergo Research. Secondo quella ricerca “al cinema sono riconducibili il 2 % degli atti di visione dei film cinematografici”. Purtroppo non c’è stata possibilità di comprendere la metodologia adottata in questa stima, ma sicuramente quello studio ha cercato di entrare in un territorio inesplorato che meriterebbe ben altra attenzione (anche da parte delle istituzioni, oltre che da parte degli operatori commerciali).
Sicuramente, Netflix potrebbe rivelarci molto su “cosa” piace agli italiani, ma, come è noto, la piattaforma non rivela i dati preziosi che accumula continuamente, e sulla base dei quali – al di là del marketing della sua offerta – costruisce i presupposti per i suoi interventi nella produzione di audiovisivo. I comuni mortali debbono accontentarsi dei dati Auditel e dei dati Cinetel, che, al confronto, sono veramente poca cosa.
La rassegna stampa odierna sulla presentazione di Venezia ieri, a cura del Presidente della Biennale Roberto Cicutto (per molti anni alla guida di Cinecittà Istituto Luce) e del Direttore Alberto Barbera, registra grande entusiasmo e molte aspettative, anche rispetto ai titoli italiani in concorso (tra i quali emerge il film su Maradona di Paolo Sorrentino, “è stata la mano di Dio”, e “Freak Outs” di Gabriele Mainetti): nessuno si domanda però se questo festival (che pure ha un budget notevole: circa 14 milioni di euro l’edizione 2020) ha una funzione realmente stimolante per quanto riguarda il consumo cinematografico “di massa”, che è quello di cui ha bisogno il nostro sistema audiovisivo.
Temiamo che sia in atto una strana dinamica: i critici continuano a bearsi del proprio privilegio di inviati speciali, in comode nicchie intellettual-esistenziali; il Ministero finanzia oltre 200 lungometraggi cinematografici all’anno, la gran parte dei quali resta “invisibile”…
Una riprova?!
L’ultima edizione del David di Donatello (ed anche su questa kermesse dovrebbero emergere molte domande, su costi/benefici e reale efficacia) ha selezionato oltre 100 film italiani dell’ultimo anno, a fronte di una produzione annua che veleggia oltre il doppio.
Qualcuno si è preso la briga di vedere che fine hanno fatto quei film che sono “oltre” l’elenco dei primi 40 o 50 lungometraggi “made in Italy” che forse hanno avuto una proiezione in sala per qualche giorno?!
Una parte significativa dei film italiani del David sono stati visti… soltanto dai giurati del David (!), e già questo la dice lunga.
E gli altri oltre 100 film “non selezionati” dal David, quali sono? E, soprattutto, “cosa” sono?!
Si tratta di una massa “sommersa” di opere, che non vengono proiettate in sala, che non vengono trasmesse in televisione, che non vengono offerte dalle piattaforme…
Veramente, film invisibili, che pure sono realizzati grazie al sostegno dello Stato: l’avvocato specializzato Michele Lo Foco – già Vice Presidente fino a poco tempo fa del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo del Mic (al suo posto è subentrato il Presidente dell’associazione dei produttori Apa, Giancarlo Leone) – li definisce “film di Stato”. Come dargli torto?! Sovvenzionati ed invisibili.
Cui prodest?!
La risposta a questa domanda non la si trova certamente nella “valutazione di impatto” (prevista dalla “legge cinema e audiovisivo” del 2016 promossa da Dario Franceschini) che il Ministero della Cultura ha affidato poche settimane fa, ancora una volta, all’associazione temporanea di impresa Università Cattolica e Ptsclas spa (vedi “Key4biz” del 10 marzo 2021, “Pubblicata la ‘valutazione d’impatto’ della legge cinema e audiovisivo per il 2019”).
Naturale sorge il dubbio se si voglia veramente “fare luce” su queste dinamiche oscure, su processi vischiosi, oppure se si vuole semplicemente perpetrare la riproduzione inerziale dello stato delle cose.
Direzione Cinema e Audiovisivo del Mic: 5 milioni di euro per 129 festival cinematografici in tutta Italia
Domande simili andrebbero poste anche rispetto alla gran massa di festival cinematografici che beneficiano del finanziamento ministeriale: servono realmente a stimolare la domanda, espandono realmente lo spettro del pluralismo espressivo, o sono per lo più iniziative autoreferenziali per una piccola compagnia di giro?!
Proprio ieri il Mic ha reso noto un decreto direttoriale a firma del Direttore Generale Nicola Borrelli: impressiona osservare come, a fronte di ben 242 istanze, siano stati finanziati ben 129 festival in tutta Italia, con una sovvenzione complessiva di 5 milioni di euro, con una forbice che oscilla tra i 950.000 euro assegnati al pompatissimo Giffoni Valle Piana alle decine e decine di piccole kermesse che vengono sostenute – “a pioggia”, parrebbe – con 10.000 (diecimila) euro. Come dire?! Male non fanno, ma qualcuno si prende la briga di analizzare le effettive ricadute sul territorio (inteso come “territorio” dell’immaginario degli italiani e come “territorio” geografico)?! Non ci risulta.
Meglio non sapere, perché talvolta la verità è troppo dolorosa, o comunque provoca dubbi. Meglio lasciare le cose come stanno…
In attesa che qualcuno (al Ministero? a Cinecittà? in Anica? in una qualche università?) promuova una ricerca seria sul rapporto tra produzione, offerta e consumo nell’immaginario audiovisivo italiano, ci si goda Venezia senza porre altre domande imbarazzanti…
Domande imbarazzanti: chi protegge i minori rispetto all’anarchia dei contenuti online?
Una qualche domanda imbarazzante se l’è finalmente posta l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ovvero il Presidente Giacomo Lasorella: la relazione annuale al Parlamento (la prima firmata dal nuovo consiglio insediatosi nell’ottobre 2020) è molto ricca di stimoli, a partire dal riferimento alla Francia, che ha assegnato una funzione di garanzia in materia “trasparenza algoritmica” ad una autorità indipendente…
Agcom segnala un complessivo indebolimento di tutta l’industria dei media in Italia, il cui complessivo valore economico è in calo da oltre un decennio, a conferma della fragilità strutturale della nostra industria culturale (Lasorella lamenta “un vuoto di politica industriale”), che pure ancora gode di un qualche prestigio nel mondo almeno per quanto riguarda la qualità dei contenuti.
Nella relazione, però, nemmeno una parola sul cinema in sala (vedi supra, quando lamentavamo l’assenza di “connessioni” ed il deficit di visione “di sistema”). La parola appare soltanto nella tabella di sintesi del Sic, il famigerato e controverso “sistema integrato delle comunicazioni”: con 741 milioni di ricavi di euro nel 2019, risulta incidere per il 4,1 % sul totale di 18.112 milioni del Sic. E lì si ferma.
Qui ci piace però ora concentrarci su uno specifico passaggio, perché finalmente emerge un grido (suvvia, un segnale) di allarme su una questione, delicata importante strategica, rispetto alla quale tutte (e ribadiamo: tutte) le istituzioni italiani non si sono mai appassionate, ovvero la tutela dei minori.
Giacomo Lasorella (Agcom): manca “una organica e adeguata disciplina di protezione dei minori applicabile ai contenuti online”
Finalmente, Agcom scopre che “il principe è nudo” (si consenta l’autocitazione, dato il titolo di questa rubrica): Lasorella osserva come nel nostro ordinamento manchi ancora “una organica e adeguata disciplina di protezione dei minori applicabile ai contenuti online”.
E per altri aspetti, la normativa è “frammentata”, aggiunge, riferendosi in particolare al contrasto al gioco d’azzardo, della classificazione delle opere audiovisive destinate al web e dei videogiochi, ma anche all’hate speech (discorsi di incitamento all’odio) e alle attività di prevenzione e contrasto del fenomeno del cyber-bullismo.
Era ora!
Era ora che un soggetto istituzionale si spogliasse di reticenze timori e ipocrisie: la situazione è grave, anzi drammatica.
Nessuno in Italia sembra porsi il problema del libero (totalmente libero) accesso dei minori al web, con particolare attenzione alla pornografia.
Si segnala comunque che nella “Sintesi” proposta dal Presidente Agcom (41 pagine), la parola “pornografia” è assente.
Abbiamo controllato: l’assenza (totale) si riscontra anche nelle 208 pagine della “Relazione Annuale”. Preoccupante?! No: inquietante! Come se il problema non esistesse?!
Abbiamo denunciato più volte, anche su queste colonne, il problema (vedi, in particolare, “Key4biz” del 7 aprile 2021, “Abolita la censura cinematografica. Ma il vero problema è cosa circola sul web”): le nostre tesi non hanno registrato eco significativa, come se si trattasse di un problema minore.
Abbiamo lamentato come uno dei soggetti che dovrebbe essere preposto ad una qualche forma di vigilanza, il Comitato di Applicazione del Codice di Autoregolamentazione Media e Minori (presieduto da Donatella Pacelli) sia costretto ad operare in assenza di risorse.
E stessa funzione di “foglia di fico” sembra essere assegnata al Consiglio Nazionale degli Utenti – Cnu (presieduto da Sandra Cioffi), anch’esso organo “accessorio” dell’Agcom, abbandonato alla sua semi-clandestinità…
Stesse critiche possono essere certamente rivolte anche alla Autorità per l’Infanzia e l’Adolescenza – Agia (Carla Garlatti).
Si tratta di enti che sono così depotenziati (e definanziati) da non poter disporre della strumentazione minima per poter incidere nella realtà.
Vincenzo Vita: Agcom, “spirito cronachistico ed esplorativo” senza “forza e decisione”?
Tornando alla relazione Agcom, vogliamo sperare che l’attenzione del Presidente Giacomo Lasorella non sia accidentale, e che non abbia una connotazione soltanto cronachistica, come lamenta Vincenzo Vita in un accurato articolo su “il Manifesto” di oggi: l’ex Sottosegretario alle Comunicazioni (Pd) ed ormai qualificato mediologo teme che i percorsi tecnologici in atto siano descritti da Agcom “con spirito cronachistico ed esplorativo, come se l’Agcom, cui sono stati attribuiti ulteriori poteri con il c.d. decreto rilancio dell’anno passato, non dovesse intervenire con forza e decisione”. Ed ironizza: “sembra l’aggiornamento – mutatis mutandis – del motto di Debord: non la politica, ma la comunicazione diviene spettacolo”.
Un po’ di preoccupazione, in verità, emerge, perché – per esempio – il Presidente dell’Agcom segnala l’attività del progetto Safer Internet Center Italy (cosiddetto “Sic-Italia”), coordinato dal Ministero dell’Istruzione, nato con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di servizi innovativi e di qualità dotando i giovani utenti di informazioni, consigli e supporto per navigare con maggiore consapevolezza e sicurezza e per semplificare la eventuale segnalazione di materiale illegale online: senza dubbio, questa iniziativa rientra tra le pratiche eccellenti, ma è veramente poca cosa rispetto alle dimensioni quali-quantitative del problema in atto, nel rapporto dei minori con i media (web in primis)…
Il Presidente Lasorella enfatizza che “l’Agcom ha aderito all’edizione del Sic V 2020-2021, promuovendo attraverso il portale www.generazioniconnesse.it la diffusione nelle scuole di video didattici per riconoscere le fake-news e i contenuti illegali, aumentare la consapevolezza nei ragazzi dei rischi connessi al downloading da siti pirata, promuovendo in tal modo un uso critico e consapevole di Internet”. Va bene, illustre Presidente, commendevole iniziativa (alcuni dei video prodotti nella campagna “We Are Fearless” ovvero i cortometraggi diretti da Diego D’Ambrosio e Raffaele Iardino alias Jack & Jammo ovvero Jammo Bros, produzione Uncoso Factory – sono veramente eccellenti), ma si tratta di pannicelli caldi… Anche in questo caso, si ripropone la dinamica “foglia di fico”.
Se osserviamo un deficit, riteniamo grave, nella relazione del Presidente Lasorella al Parlamento è sulla Rai Radiotelevisione Italiana spa: citata en passant soltanto 3 volte nel suo testo, così come il concetto di “servizio pubblico radiotelevisivo”: come mai questa disattenzione… totale?!
Eppure, l’Agcom una qualche competenza sulla Rai – almeno sulla carta – l’avrebbe: anzi, ad onor del vero 2 paginette (due) della Relazione sono giustappunto intitolate “La verifica degli obblighi della concessionaria del servizio pubblico” (pagg. 55-56, un po’ poco pochino in effetti; qualche dato viene proposto in “Appendice” – non pubblicata nella Relazione ma disponibile soltanto sul sito web istituzionale dell’Autorità – ma poca cosa ancora).
Nella Relazione, ci si limita a segnalare (pag. 88) “la contrazione degli introiti da riscossione del canone per il servizio pubblico radiofonico (- 10 %), che, nel 2020, si attesta su valori totali pari a 95 milioni di euro” (ed evitiamo commenti su quel refuso “radiofonico” invece di “radiotelevisivo”).
Si tratta di un segnale politico?! Non disturbare il manovratore (ovvero Carlo Fuortes… “longa manu” di Mario Draghi)?!
Aver completamente ignorato le criticità che Rai sta affrontando ci sembra ai limiti dell’incredibile. Una vera e propria “rimozione”: e non crediamo possa essere inconscia.
A rischio il pagamento del canone Rai nella bolletta elettrica: minaccia pesante per Rai
E ci domandiamo: i potenti uffici dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni dovevano attendere la notizia segnalata oggi da “Il Messaggero” in esclusiva, in un articolo a firma Andrea Bassi, ovvero che sembra a rischio il pagamento del canone Rai nella bolletta elettrica?!
In verità, la notizia – definita da alcuni una “controrivoluzione” – era stata anticipata, in tono minore, dal “Messaggero” fin dall’8 maggio (in un articolo intitolato “Via il canone dalle bollette”, firmato da Francesco Bisozzi), ma nessuno l’ha ripresa, se non il blog più qualificato ed appassionato che sia prodotto in Italia sulla tv pubblica, quel “BloggoRai”, inspiegabilmente anonimo (i ben informati sanno che si tratta di un ex dirigente Rai in pensione…), ma sempre molto accurato.
Il quotidiano romano sostiene che la norma verrà cancellata dal governo Draghi, a causa degli impegni assunti con l’Unione Europea nell’ambito del “Pnrr”: Bruxelles ha infatti chiesto di eliminare gli “oneri impropri” dai costi dell’energia.
Il veicolo – stando al quotidiano romano – potrebbe essere il disegno di legge sulla “Concorrenza”, che dovrebbe andare in Consiglio dei Ministri dopodomani giovedì.
Il canone Rai direttamente in bolletta elettrica – che prima costava 113 euro all’anno – era stato introdotto dal governo Renzi nel 2015, attraverso la “Legge di Stabilità”, per fermare l’evasione dell’imposta per la tv pubblica. L’obbligo mediante addebito sulle fatture emesse dalle società elettriche ha però in qualche modo “gonfiato” le bollette, facendole apparire più care di quanto non fossero davvero, motivo per il quale l’Unione Europea ha più volte criticato l’Italia. Il Governo Draghi avrebbe quindi deciso così di smontare la riforma di Renzi, con ogni probabilità tornando al passato.
Una decisione di questo tipo può però determinare conseguenze gravi, anzi letali per Rai, perché verrebbero meno centinaia di milioni di euro di risorse, a fronte di un bilancio che resta assai “aggravato”, come abbiamo evidenziato nel “Dossier IsICult” sull’esercizio 2020 del servizio pubblico (vedi “Key4biz” del 23 luglio 2021, “Dossier IsICult: bilancio di esercizio e bilancio sociale Rai, entrambi allarmanti”), studio che è stato rilanciato soltanto dall’agenzia stampa specializzata AgCult.
In effetti, la misura introdotta dal Governo Renzi ha consentito di sconfiggere quell’evasione del canone che storicamente affliggeva la Rai.
Non si può non condividere l’allarme lanciato dal sindacato dei giornalisti Rai: “la discussione sul canone in bolletta dimostra che non esiste futuro per la Rai, se non si risolve la questione della certezza delle risorse… Non abbiamo né totem né tabù: quello che ci interessa è che finalmente il Servizio Pubblico abbia risorse certe, di lunga durata, autonome e indipendenti. In modo da poter fare un serio piano industriale, senza dipendere anno per anno dal governo di turno. Non è una nostra pretesa, ma un preciso obbligo in capo allo Stato, sancito dal Contratto di Servizio”. Usigrai ricorda peraltro che “pendono ancora davanti al Consiglio di Stato ben 3 ricorsi sul taglio di 150 milioni imposto nel 2014. Quei pronunciamenti sono oggi ancor più indispensabili per fare chiarezza su come sono state create le condizioni per ridimensionare il Servizio Pubblico”. E conclude: “ci auguriamo che il tema della certezza delle risorse venga assunto come priorità dal nuovo vertice della Rai”.
Il problema della modalità di riscossione del canone, delicatissimo, non è certo nella competenza del nuovo Consiglio di Amministrazione Rai, ma può essere certamente il nuovo cda a ben convincere il Presidente del Consiglio Mario Draghi che una misura di questo tipo è improponibile, perché ridurrebbe in modo significativo le risorse Rai: risorse che sono già insufficienti a consentirle di fornire quel che è previsto dalla Convenzione con lo Stato e dal Contratto di Servizio con il Ministero dello Sviluppo Economico.
E la “certezza di risorse” della Rai non può essere risolta – se non emergenzialmente – con un decreto legge del Governo…