Il presidente del Pd Matteo Orfini ha elaborato con Left Wing (Leftwing.it), la rivista think tank da lui fondata, un position paper molto articolato sulla vicenda Vivendi-Tim, con una serie di proposte regolatorie e di politica industriale che puntano alla societarizzazione della rete fissa di Tim (sul modello Openreach) per superare l’impasse dello sviluppo della rete a banda ultralarga nel nostro paese. Una rete unica capace di condividere tutte le diverse reti a banda larga presenti nel paese. Questo in estrema sintesi il contenuto del position paper realizzato da Matteo Orfini con Left Wing (Leftwing.it), intitolato “Tim-Vivendi, una sfida per la politica industriale. Tra sviluppo della rete e valorizzazione dell’azienda”. Il documento non rappresenta la posizione ufficiale del Pd, ma “ha un suo consenso” nel partito, ha detto Orfini a Key4biz.
Il quadro
Il documento è stato redatto alla luce delle frizioni fra il governo e le diverse authority (Consob, Agcom, Antitrust) con Vivendi il “problematico” “azionista di controllo” francese di Tim. Un’analisi delle conseguenze di questo dissidio in essere per il destino di altri player coinvolti nel percorso controverso e accidentato di Vivendi in Italia, a partire dal futuro di Open Fiber e Mediaset.
Le possibili soluzioni di questa impasse sul fronte della rete, con proposte che privilegiano la messa a fattor comune di interessi diversi, per “rendere possibile quella piena integrazione tecnica e societaria degli asset di rete di Tim e Open Fiber che potrebbe essere il fattore di innesco di una situazione del tutto nuova”. Senza per questo assumere decisioni punitive (ma nemmeno insensatamente generose) nei confronti di Vivendi, che potrebbe dal canto suo (una volta congelati i pacchetti di voto in Tim) decidere “di affiancare Cdp o altro socio stabile italiano nel controllo di Tim” e, perché no, concentrarsi pienamente sul suo vero business di media company, riprendendo le trattative con Mediaset per la costituzione di una grande media company italo-francese.
Controllo e debito
Un testo corposo di 8 pagine, che parte dall’analisi del quadro attuale (“Vivendi controlla Tim”), caratterizzato appunto dal “controllo di Vivendi su Tim” sancito dalle recenti decisioni di Commissione Europea, Consob, poi dal gruppo di coordinamento per l’esercizio dei poteri speciali (golden powers) di Palazzo Chigi, dal rischio multa (fino a 300 milioni) per la mancata notifica al Governo dell’acquisizione del controllo di fatto di Vivendi su Tim (ai sensi della legge 21 del 2012), passando per i rischio di imposizioni del Governo a Vivendi e Tim, fino al possibile uso del diritto di veto su specifiche decisioni societarie che “dovessero mettere in pericolo l’infrastruttura o la sicurezza nazionale” visto che “l’intera rete fissa di telecomunicazioni di Tim è da considerarsi infrastruttura strategica del Paese”.
C’è poi nel documento di Left Wing un passaggio che richiama un’altra conseguenza dell’avvenuta certificazione del controllo di fatto di Vivendi su Tim: “il conseguente obbligo di considerare lo stato patrimoniale di Tim entro quello di Vivendi, con un Aggravio per il risultante bilancio consolidato di 25 miliardi di debiti netti del gruppo Tim”.
Secondo il documento, il consolidamento del debito di Tim da parte della controllante Vivendi è una misura per “tutelare i soci di minoranza della società controllata dal rischio di un depauperamento del patrimonio e della capacità reddituale della medesima, in favore della controllante, operato appunto per mezzo delle attività di direzione e controllo da parte di un gruppo estero che ha, nella sua mission aziendale di media company, obiettivi solo in parte coincidenti con quelli della valorizzazione della rete di telecomunicazioni di Tim”.
Al di là del corso che prenderà la procedura di infrazione ai sensi della legge 21/2012 (oggi il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda ha nuovamente ribadito il suo favore all’esercizio del golden power su Sparkle), il position paper analizza importanti alternative strategiche di politica industriale che riguardano in primo luogo “il destino di 60mila dipendenti (di Tim ndr) di provata professionalità e specificità settoriale”, si legge. E ancora, “bisogna assicurare la giusta traiettoria di sviluppo, verso le tecnologie di banda ultralarga, ad una infrastruttura chiave, come la rete nazionale di telecomunicazioni”. Bisogna inoltre “indirizzare e calibrare bene le ricadute sistemiche sui settori interessati e su altri importanti attori coinvolti, quali innanzitutto Open Fiber (la joint venture al 50% Enel e Cassa Depositi e Prestiti), e il gruppo Mediaset, che con Vivendi ha un forte contenzioso, ma anche possibili, ambiziosi progetti comuni”.
Open Fiber
Il documento richiama poi le due nuove sfide al mercato italiano di Open Fiber: “puntare sulla rete in fibra per imprese e famiglie e realizzare un modello operativo wholesale only, con una rete aperta a tutti i concorrenti”, ricordando le risorse pubbliche per 7 miliardi stanziate e le due gare Infratel vinte da Open Fiber per realizzare e gestire l’infrastruttura pubblica nelle aree bianche e le “azioni difensive (inclusi ricorsi e modifiche dei piani di investimento)” di Tim, su cui l’anitrust italiano ha acceso un faro con un’istruttoria in corso per abuso di posizione dominante.
Vivendi-Mediaset
In seguito, ripercorre la scalata di Vivendi a Mediaset, con la salita al 29% a fine dicembre da parte del gruppo francese nel Biscione, e l’istruttoria aperta dall’Agcom per violazione dell’art.43 del TUSMAR e il congelamento dei diritti di voto eccedenti il 9,9% in Mediaset secondo il piano sottoposto da Vivendi all’Autorità. L’evoluzione della vicenda Vivendi-Mediaset “avrà inevitabilmente conseguenze importanti anche sul settore della produzione e distribuzione di contenuti multimediali”, prosegue il position paper di Left Wing, “inclusi i diritti sportivi per la trasmissione di eventi premium come il campionato di calcio di serie A” (l’asta per l’assegnazione dei diritti del triennio 2018-2021 si terrà entro l’autunno e potrebbe partecipare anche la joint venture fra Tim e Canal+).
Concorrenza infrastrutturale
Il ritardo italiano sulla rete, certificato dalla Ue e dall’Ocse e dovuto prevalentemente ai “ridotti investimenti sull’infrastruttura in fibra da parte del gruppo Telecom, gravata dai debiti e priva di un assetto stabile da ormai vent’anni”, si legge nel testo, e dovuto anche all’”eredità del rame”, che ha generato nel tempo il moltiplicarsi delle reti a banda larga (fino al cabinet) e un’embrionale “concorrenza infrastrutturale” tra diversi network, “senza tuttavia portare la fibra a famiglie e imprese e lasciando l’ultimo miglio (e sub-miglio) in prevalenza alle connessioni in rame”. Un modello, quello della concorrenza infrastrutturale, che secondo il documento non ha risolto il problema dell’infrastrutturazione di qualità a banda ultralarga dell’intero paese. “La cristallizzazione del modello di concorrenza infrastrutturale è alla lunga insostenibile”, sostiene il documento, tanto più che sullo sfondo resta la sfida del 5G, che richiede forti integrazioni fra rete fissa e mobile.
I nodi vengono al pettine
I nodi vengono al pettine, e dopo l’arrivo di Vivendi in Tim c’è il rischio di “una riduzione della proiezione internazionale e della capacità dell’azienda di essere leader tecnologico per la trasformazione industriale del paese”. Ma le ipotesi di mero scorporo, “se non si vogliono percorrere misure di nazionalizzazione autoritativa (cosa impossibile nel diritto comunitario), comporterebbero l’esigenza o di pagare la rete a prezzo pieno (stime correnti parlano di 10-12 miliardi), o di caricarsi sopra una quota rilevante del debito di Tim, con il rischio di rendere strutturalmente deficitaria la costituenda impresa pubblica della rete, che dovrebbe avere invece basi finanziarie solide per assicurare un flusso sostenuto di investimenti e non è opportuno che sia gravata in partenza da un debito importante”, prosegue il documento. Tanto più che a fronte di “costi certi per pagare la rete ai francesi e metterla in una scatola apposita”, dice Orfini, ci sarebbero certamente anche da aggiungere gli investimenti necessari per realizzare la nuova infrastruttura.
Ma nemmeno la creazione di due società, una commerciale e l’altra della rete, sembra una soluzione semplice. Però lo status quo va superato, “se si vuole procedere in modo spedito ed ordinato verso una rete unica nazionale integrata e tecnologicamente avanzata”, si legge.
Prima di indicare un percorso realistico di soluzione di questi problemi, il documento ribadisce che finora Vivendi è stato “un azionista di controllo molto problematico”, avendo assunto in modo quasi “involontario” il controllo di Tim, avendo dichiarato di venire a conoscenza solo oggi (nel corso dei lavori del gruppo di coordinamento di Palazzo Chigi sul golden power) del carattere strategico dell’intera rete telefonica di Tim.
Le proposte di Orfini e Left Wing
Ora la politica deve sciogliere tutti questi nodi e il position paper di Left Wing dà le sue ricette:
- Partire dal quadro regolatorio per favorire un’integrazione, anche societaria, dei diversi asset complementari che costituiscono l’infrastruttura di nuova generazione, per passare da un modello di “concorrenza infrastrutturale” ad un modello di “essential facility”, “con una rete unica nazionale tecnologicamente avanzata”, si legge, con un percorso di regolamentazione da parte della Autorità coinvolte (Agcom e Antitrust ndr) aperto a diverse opzioni, che assicuri l’accesso paritario all’infrastruttura attraverso un regime di “neutralità” ed eventualmente disponga se necessario a tal fine, l’enucleazione di una società della rete, giuridicamente distinta all’interno del gruppo Tim, sul modello inglese Openreach. L’obiettivo è ricostituire, in modo graduale, una rete unica “che funzioni come un monopolio naturale” che, con l’intervento dell’antitrust, non costituisca un vantaggio asimmettrico, ai danni dei concorrenti, in favore del fornitore di servizi Tim, che resterebbe in una certa misura integrato verticalmente con l’infrastruttura”.
- Si auspica maggior certezza e trasparenza, anche contabile, circa il piano industriale di potenziamento e di gestione della rete e “la societarizzazione delle diverse attività all’interno del gruppo Tim potrebbe favorire maggiore trasparenza”, si legge nella proposta di Orfini, in tema di sicurezza e integrità delle rete, la cui garanzia è in capo all’Agcom. Perché l’Autorità si trova alle prese con tutte le difficoltà di un soggetto incumbent sotto la direzione e il coordinamento di una società estera, “che ha nel settore dei media la sua vocazione industriale e che non fa mistero di voler piegare le sinergie con Tim nell’ambito dei media (reindirizzando in una media company risorse destinabili invece alla valorizzazione della rete, come dimostra la costituzione di Canal Plus Italia)”.
- Lo sviluppo della rete, prosegue il documento, ha bisogno dell’impegno di Tim, della sua cassa e dei suoi investimenti, ma bisogna incentivare gli operatori di rete concorrenti, con la regolazione e ingenti investimenti pubblici “che vanno incoraggiati a rivedere le proprie strategie manageriali e di investimenti”, fino a metterli “a fattor comune, nella prospettiva di una unificazione tecnica e possibilmente anche societaria (per esempio sotto forma di joint venture) delle diverse reti a banda larga, complementari con la rete Tim”.
- Per fare tutto ciò, in alternativa allo scorporo, si dovrebbe “consentire a Vivendi di rinunciare al fardello del controllo (ed all’obbligo conseguente di consolidamento del debito a bilancio), tutelando il valore del suo investimento, per concentrarsi al meglio sul progetto strategico di negoziare con Mediaset, su basi paritarie, la costituzione di una vera media company europea”. “Esiste infine l’ipotesi che Cassa Depositi e Prestiti, già fortemente impegnata nella partita Open Fiber, si proponga di rilevare, in tutto o in parte, la partecipazione di Vivendi (in Tim ndr), una volta superate con l’Antitrust eventuali riserve sul percorso di integrazione individuato”.
“Vivendi potrebbe mantenere una quota di minoranza in Tim – chiude il documento – oppure congelare i pacchetti di voto e rimandare così decisioni strategiche oppure affiancare Cdp o un altro socio stabile italiano nel controllo”. Il punto è “valutare l’ipotesi di riportare il pubblico dentro l’azionariato di Tim, con una presenza che garantisca il paese per un’azienda strategica per la sicurezza nazionale”, chiude Orfini.