Un anno fa Telecom Italia, ora TIM, si ritirava anche dall’ultimo avamposto di Bruxelles sotto la guida della strana coppia Recchi-Cattaneo chiudendosi tutti i ponti con le istituzioni europee, con l’industria e con gli stakeholder internazionali, focalizzando la sua difesa e le sue munizioni solo contro governo ed istituzioni Italiane e naturalmente contro la neonata Open Fiber.
Il risultato, consolidato nel corso di poco tempo è stato quello di una lunga incomunicabilità dell’azienda verso l’esterno: difficoltà di interlocuzione, anzi lunghi silenzi o addirittura scontri aperti con il governo, le autorità di regolazione, la UE.
Ora, a distanza di un anno ci sono solo macerie per Telecom Italia e non sarà facile fare ricostruzione. Qualcuno, si dirà, dovrà pagare il conto. Ma non sarà così facile, i comandanti hanno già abbandonato la nave dopo laute remunerazioni e super buonuscite. Le cifre lette sulla stampa lasciano annichiliti, se si pensa alle migliaia di dipendenti in solidarietà ed alle strategie poco chiare dell’azienda.
Certo, una serie di pesanti vicissitudini hanno segnato gli ultimi mesi i rapporti con l’Europa, ma quanto avvenuto nelle ultime settimane a Bruxelles appare di maggior rilievo e ci riporta al cuore di un problema di non poco conto: il quesito sul se e come le telecomunicazioni, ovvero un mercato con margini molto ridotti rispetto al passato, debbano o possano riformulare il proprio modello di business.
Il modello ‘wholesale-only’, contro cui TIM si è battuta in Italia, sta facendo il suo ingresso nella legislazione europea.
È di due settimane fa la notizia del raggiunto l’accordo politico tra Consiglio, Parlamento e Commissione (il cosiddetto trilogo) sul modello “wholesale-only”.
Il nuovo codice delle comunicazioni elettroniche introduce, per la prima volta a livello regolamentare europeo, il modello “wholesale-only“. Si tratta di quell’operatore di telecomunicazioni che, a differenza di quelli tradizionali verticalmente integrati, non opera nel mercato residenziale o business (ovvero diretto agli utenti finali), ma concentra la sua intera attività nell’installazione di nuove reti in fibra, offrendone poi l’accesso agli altri operatori di telecomunicazioni.
È un modello di business estremamente innovativo poiché riduce al minimo, se non elimina completamente, i tradizionali contenziosi tra il proprietario della rete e gli operatori terzi che ne chiedono l’accesso, proprio perché l’operatore wholesale-only non opera nel mercato al dettaglio.
Il modello wholesale-only è praticato in Italia, come è noto, da OpenFiber, la joint-venture di Enel e Cassa Depositi e Prestiti. In Europa esistono operatori simili anche in Svezia (Stokab, che opera nella regione metropolitana di Stoccolma), Irlanda (Siro, una joint-venture tra Vodafone e l’utility elettrica) e Regno Unito (CityFiber, che dopo aver cablato York si sta ripetendo in altre città inglesi).
Il modello si sta diffondendo, oltre che nelle aree commerciali, anche in numerose zone a fallimento di mercato, soprattutto in Francia ed Austria, dove le municipalità investono in reti in fibra ottica per supplire alla mancanza di interesse da parte degli operatori tradizionali.
L’introduzione del wholesale-only, che valorizza l’esperienza italiana e rappresenta un elemento di novità e di indubbio successo per la Commissione Europea, potrà risultare particolarmente efficace per installare nuove reti in fibra ad altissima velocità (ultrabroadband), nonché particolarmente appetibile per i fondi d’investimento infrastrutturali.
Qual è il senso di questa nuova norma e quale sarà l’impatto per il mercato?
Nella sostanza è stata approvata una regolamentazione differenziata e molto più leggera per gli operatori wholesale-only che, anche nel caso dovessero essere considerati dominanti nel loro mercato, saranno comunque soggetti a regolamentazioni di accesso meno intrusive, e l’autorità nazionale non potrà imporre prezzi orientati al costo. Si tratta di un regime regolatorio più favorevole rispetto a quello previsto precedentemente per TIM che, essendo verticalmente integrata, dovrà continuare ad essere strettamente regolata per evitare comportamenti abusivi nei confronti dei richiedenti accesso alla rete, che sono anche loro competitori.
La norma approvata con l’accordo europeo, vale a dire l’art. 77 del nuovo Codice, prevede inoltre dei criteri per evitare che la regolamentazione leggera possa essere indebitamente sfruttata da cosiddetto “fake wholesale-only”. In altre parole, TIM non potrà qualificarsi come operatore wholesale-only anche nel caso (come sta accadendo) dovesse separare la rete in una newco all’interno della quale mantenesse il controllo. In pratica, la qualifica di operatore wholesale-only si potrà ottenere solo se si può dimostrare di non aver alcun legame con il mercato residenziale e con l’operatore incumbent.
Ma c’è, tuttavia, qualcosa che rende lo stato di difficoltà di TIM più amaro, perché è una sconfitta che non si vede ma che si sente. Quella di essere uscita dal circuito europeo ed internazionale ovvero dal grande giro degli operatori europei. Uno stato di vero e proprio isolamento.
Basti ricordare come, nonostante gli sforzi, Tim non sia stata capace neanche di far eleggere il suo ex Vice President Giuseppe Recchi nel Board di GSMA, un Board composto da ben 25 operatori di telecomunicazioni e di cui fanno parte anche operatori molto più piccoli di TIM. Una sconfitta ancor più cocente visto che GSMA ha avuto tra i suoi padri fondatori Mauro Sentinelli e per diversi anni è stata presieduta con grande prestigio da Franco Bernabè. E sappiamo quanto a livello internazionale sia difficile costruire credibilità e fiducia, mentre è molto facile perderla.
Insomma, un lungo periodo negativo per TIM che nell’arco di poco meno di due anni è stata tagliata fuori da tutti i tavoli europei ed internazionali che contano e, cosa più grave, non potrà più partecipare, conoscere ed influenzare le future policy del settore.
Singolare che da un quadro così sconcertante la maggior preoccupazione del momento dell’Ad di TIM sia l’accordo Televisivo Sky-Mediaset.
E questo dimostra come, nella vita di TIM, gli interessi del gruppo Vivendi prevalgano su qualsiasi altra ragione.