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Telecomunicazioni, l’ondata di fusioni spinge i tagli nella Ue  

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Lo sviluppo tecnologico delle telecomunicazioni e il fenomeno crescente dei merger non è sinonimo di nuovi posti di lavoro. Al contrario.

Lo sviluppo tecnologico delle telecomunicazioni non è sinonimo di nuovi posti di lavoro. Al contrario. Le nuove reti ultraveloci, dalla fibra al 5G, e i nuovi smartphone sempre più moderni hanno sì rivoluzionato il nostro modo di comunicare, ma di pari passo nel giro degli ultimi anni il personale delle compagnie Tlc ha subito una forte dieta dimagrante. Basti pensare che in Spagna la forza lavoro è diminuita del 70%.

Spagna

Secondo stime della UGT, uno dei principali sindacati iberici, nel 1998, anno di liberalizzazione delle Tlc con la fine del monopolio di Telefonica, le compagnie del comparto occupavano 96mila persone, mentre oggi ne contano a malapena 25mila.

I dati della CNMC, l’autorità antitrust spagnola, vanno nella stessa direzione: nel 1998 il settore impiegava complessivamente 96.105 persone, mentre a fine 2023 il computo era sceso a 63mila, tenuto conto però che nel paniere sono compresi anche i dipendenti del settore audiovisivo (televisione e radio).

Soltanto nell’ultimo anno. Ci sono state più di 5mila uscite volontarie dagli operatori spagnoli, che è vicino a 6mila se si include il piano annunciato martedì da Masorange, il nuovo operatore nato dalla fusione fra Masmovil e Orange.  

La maggior parte di queste perdite di posti di lavoro si è verificata in Telefónica, che ha perso quasi 60mila dipendenti negli ultimi 30 anni in Spagna, dal 1992, quando aveva 74.437 lavoratori. Tre decenni dopo, e in coincidenza con l’anno del suo centenario nel 2024, ha perso il 77,8% della sua forza lavoro, che raggiunge a malapena i 16.500 lavoratori.

Ma, allo stesso tempo, le nuove aziende che sono emerse per competere con essa – Vodafone, Orange, Avatel o le ormai defunte compagnie via cavo, tra le altre -, in seguito al lancio dei loro marchi commerciali e al loro consolidamento sul mercato, hanno anche intrapreso processi accelerati di distruzione di posti di lavoro. Paradossalmente, uno dei catalizzatori di questi aggiustamenti del lavoro sono state le fusioni che, in teoria, sono state formalizzate per sfruttare le sinergie tra aziende rivali, ma che hanno portato a risparmi sui costi, compresi i costi del personale.

Storico

E’ questo che si è verificato nel 2014, quando Vodafone Acquisì Ono, un’operazione da 7,2 miliardi di euro risultata nel taglio di 1.300 dipendenti (21,3% del totale).

L’acquisizione di Amena da parte di France Telecom (poi Orange) ha prodotto alla fine 600 esuberi nel 2008. Lo stesso si è verificato con l’acquisizione di Jazztel da parte di Orange nel 0215, con 550 esuberi nel 2016.

Più di recente, Avatel dopo aver rilevato diversi piccoli player regionali, ha chiuso a giugno un piano di esuberi per 674 persone, pari al 36% del personale.

L’annuncio di Masorange di martedì scorso, che metterà in atto esuberi per 795 lavoratori, circa il 10% della sua forza lavoro totale, è un ulteriore esempio di questo fenomeno perché arriva appena cinque mesi dopo che la fusione tra Orange e MásMóvil è stata consumata, dopo più di un anno e mezzo di trattative per la sua autorizzazione. Eppure, tra le condizioni per Bruxelles e il governo spagnolo per dare la loro approvazione c’era il mantenimento dei livelli occupazionali.

Telefonica

Telefónica diede il via a questo processo di aggiustamenti nel settore tra il 2011 e il 2013, quando 6.830 lavoratori hanno lasciato l’azienda con diverse indennità di fine rapporto che sono costate all’operatore poco più di 2.600 milioni. L’azienda ha effettuato una seconda tornata di aggiustamenti nel 2015, con la partenza di 6.300 lavoratori a un costo di quasi 3,7 miliardi di euro. Successivamente, ne sono stati implementati altri due. Nel 2019, 2.636 dipendenti hanno lasciato l’operatore, a un costo di 1.732 milioni di euro. E nel 2021, 2.347 lavoratori se ne sono andati, a un costo di 1.663 milioni di euro. L’ultima volta all’inizio di quest’anno, con la partenza di 3.393 dipendenti e un costo di 1,3 miliardi di euro.

Vodafone, da parte sua, ha realizzato cinque piani di razionalizzazione negli ultimi dodici anni, che hanno portato all’uscita di un totale di circa 4.500 persone. L’ultimo è stato chiuso a luglio, in seguito all’acquisto dell’operatore spagnolo da parte del fondo Zegona, e ha comportato il licenziamento di 898 persone, il 27,5% della forza lavoro.

Oltre a quelli menzionati per l’acquisto di Amena e Jazztel, Orange ha presentato un altro piano di esuberi a giugno 2021 che ha comportato l’uscita di 400 lavoratori, tra pensionamenti anticipati e licenziamenti volontari.

Una eccezione alla regola in questa pioggia di licenziamenti nel settore è la creazione di posti di lavoro portata avanti da Digi. L’operatore rumeno, che attualmente sta attirando più clienti e aumentando i suoi ricavi nel mercato spagnolo, ha aumentato la sua forza lavoro del 51% solo nel 2023 e ora ha 8.000 dipendenti. A differenza dei suoi principali concorrenti, che hanno esternalizzato quasi tutti i loro servizi, Digi dispone di propri call center per il servizio clienti e ha anche assunto personale proprio per installare e mantenere le linee.

L’ondata Ue

Il fenomeno dei licenziamenti non riguarda soltanto la Spagna. In totale, le aziende europee di telecomunicazioni stanno pianificando di tagliare quasi 100.000 posti di lavoro. Il più grande aggiustamento annunciato nel settore è quello di BT, l’ex British Telecom, che colpirà 55.000 persone, il 42% della forza lavoro. Quasi parallelamente, Vodafone ha annunciato nel 2023 la partenza di 11.000 persone nei prossimi tre anni, circa l’11% della sua forza lavoro globale. Tra i gruppi britannici, Virgin Media O2, una sussidiaria di Telefónica, e Liberty Global hanno ridotto la loro forza lavoro di 2.000 persone, circa il 12% del totale. La svedese Telia ha tagliato circa 1.500 persone, circa l’8% del totale, e Tim ha tagliato 2.000 posti di lavoro.

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