Molte cose al mondo sono cicliche. L’alternarsi di espansione e recessione in economia, l’alternanza tra reazione e avanguardia nell’arte, il ritorno dello stile dei decenni precedenti in nome del vintage. La tecnologia: innumerevoli sono i meme che mostrano quanto i telefonini siano diventati via via sempre più piccoli nei primi anni duemila per poi ingrandirsi sempre di più con l’avvento dello smartphone, fino ai phablet (e oggi non se ne parla più così tanto: forse abbiamo toccato il picco anche qui?).
La televisione a pagamento ha seguito un’altra sinusoide. Nel 1991, in Italia arriva Tele+, con tre canali criptati che per la prima volta ci introdussero al mondo dei decoder. Poi è il turno di Stream e infine di Sky, che per lungo tempo, da monopolista del mercato satellitare a pagamento, ha rappresentato “la” pay tv per eccellenza (l’unica concorrenza con il digitale terrestre di Mediaset Premium). Infine, nel 2015, dopo più di anni di dominio pressoché incontrastato, la rivoluzione della tv streaming: prima Netflix, poi tutti gli altri, in un proliferare di piattaforme che ha portato nelle nostre case centinaia e centinaia di contenuti non disponibili da nessun’altra parte, all’inizio ognuno con il suo decoder – per configurazioni complicatissime in salotto – e poi, grazie alle smart tv, tutte ricomprese in un unico apparecchio. Ognuna con il suo abbonamento, però.
Dopo la dispersione, si consolida. Ma a quale prezzo?
Come mostra il comparatore di SOStariffe.it, le piattaforme di streaming a cui ci si può iscrivere hanno superato la decina solo in Italia, e così l’esborso medio non è certo diminuito rispetto a chi aveva Sky durante i primi anni sul mercato: all’epoca si pagava sui 50-60 euro per il pacchetto completo, che è più o meno lo stesso prezzo (se non addirittura di meno) per chi vuole avere tre o quattro tra i più importanti servizi di streaming, magari ottimizzati per la propria tv ad altissima definizione. E rispetto a un contenitore unico, tutto è più complicato, tanto che sono nati motori di ricerca apposta (come JustWatch) che indicano se è disponibile in streaming un determinato contenuto e su quale piattaforma. Almeno fino a ora.
Secondo un report pubblicato da Parrot Analytics, infatti, il prossimo grande trend nel mondo dello streaming sarà quello del consolidamento. Dopo aver raggiunto il massimo livello di dispersione, si va dunque verso un’aggregazione – da più parti invocata – di alcuni dei più importanti operatori del settore, che porteranno a un’esperienza d’uso più semplice e compatta, ma anche, nella maggior parte dei casi, a un aumento del costo degli abbonamenti. Certo: rispetto a qualche anno fa, se non altro, è cambiata la modalità dell’annullamento dell’iscrizione a questi servizi, visto che di regola non si pagano più penali per un abbandono prima del previsto, ma la subscription economy si basa anche sulla pigrizia e sul dimenticarsi di cancellare gli abbonamenti; abitudine che potrebbe diventare davvero controproducente, se i “pacchetti” avranno un canone mensile molto più oneroso.
Il primo esempio del nuovo corso: Max
Il consolidamento (un esempio su tutti: la nuova piattaforma Max, che integra negli Stati Uniti tutti i contenuti di Discovery+ in HBO Max, con prezzi mensili che vanno da 9,99 dollari a 19,99 dollari al mese; la stessa cosa farà Disney con Hulu) porterà a un cambiamento del mercato decisamente radicale, ma non potrà esaurirsi semplicemente con il mettere contenuti differenti nello stesso calderone, o saranno guai. Da subito o con il passare del tempo, le piattaforme hanno acquisito una loro specifica identità: per fare un esempio, di norma HBO Max si basa su contenuti più “adulti” rispetto, poniamo, a Disney+ (con doverose eccezioni, si pensi a The Bear), che cerca soprattutto di massimizzare i profitti derivanti dalle sue IP, come l’universo di Star Wars e quello del Marvel Cinematic Universe. Un consolidamento troppo “generalista” porterebbe a una notevole confusione a tutti coloro che a fianco dell’ultima stagione di Succession trovassero le ultime stagioni complete di Peppa Pig. Ecco perché dovranno essere ulteriormente migliorati gli algoritmi, che nell’universo spesso caotico delle piattaforme di streaming – quante volte è capitato a ciascuno di noi di cercare invano il contenuto che ci interessava in una selva di categorie difficilmente comprensibili – rappresenteranno sempre più l’unica possibile guida.
Complementari contro congruenti
La differenza chiave è tra un pubblico “complementare” e uno “congruente”, almeno parzialmente. Nel primo caso, i contenuti diversi su una stessa piattaforma ampliano parecchio i potenziali spettatori, ma c’è il rischio che si creino blocchi contrapposti e, per così dire, a tenuta stagna: accade quando i film, le serie, i documentari sono così differenziati che chi ne guarda un tipo ben definito difficilmente potrà essere interessato a cambiare totalmente genere, malgrado tutti i possibili suggerimenti degli algoritmi. In una situazione come questa, l’esaurimento dei contenuti ritenuti interessanti dagli spettatori arriverebbe con la stessa velocità con cui arriva ora, con il consolidamento ancora lontano.
Nel secondo caso, con una parziale congruenza, c’è un terreno comune che permette di avvicinare gli spettatori di un gruppo agli spettatori dell’altro, con contenuti che possono piacere a entrambe le categorie e spingerle ad approfondire in direzioni prima impreviste. Una situazione ideale ma che non è facile da ottenere. Per questo, proprio il caso di Max è interessante: HBO Max e Discovery+ hanno un target molto diverso, e per questo il CEO di Warner Bros, David Zaslav, sostiene che Max sia “la piattaforma da guardare, perché è il posto in cui ogni membro della famiglia può vedere esattamente ciò che vuole vedere, in qualsiasi momento”. Ma, come si è visto, non ci si può fermare all’offrire contenuti variegati: bisogna fare in modo di espandere i potenziali interessi delle diverse tipologie di spettatori, costruendo ponti tra di loro.
Ad esempio, il pubblico-tipo di un prodotto come Succession – con la maggioranza di spettatori sotto i 39 anni, perfettamente distribuito tra maschi e femmine – è molto diverso da quello dei programmi standard di Discovery+, con una percentuale femminile molto più elevata e un’età media più alta. Ma questo non vuol dire che sia impossibile ipotizzare dei percorsi efficaci: un’idea, secondo il report, potrebbe essere quella di suggerire a chi ha appena finito Succession una serie come Game of Thrones (fantasy, con tutto ciò che comporta, ma basata sull’intrigo e sulla conquista del potere) e da lì virare verso Mythbusters o Dirty Jobs, che hanno un’audience giovane, a fare da “grimaldello” per gli altri contenuti di Discovery. Mondi diversi che vengono a contatto, insomma: difficile, ma necessario.