L’amore non ha etichette. Questo è il claim di una nuova articolata campagna dell’AD Council americano, supportata da enti, associazioni no-profit e anche imprese come Coca Cola, Unilever, P&G.
Intende combattere ogni discriminazione di genere, razza, religione, atteggiamenti sessuali.
La campagna fa perno su un sito dedicato lovehasnolabels.com in cui propongono di fare un test per misurare il proprio livello di “bigottaggine”, invitano a leggere storie di persone che si sono confrontate con i propri pregiudizi e danno consigli su come essere preparati ad affrontarli e superarli in vari ambiti (a scuola, al lavoro, nel quartiere,…).
La Rubrica Spot&Social è curata da Alberto Contri, presidente della Fondazione Pubblicità Progresso. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.L’iniziativa prevede ovviamente anche la partecipazione del pubblico che, oltre a condividere tutti questi contenuti, può anche testimoniare la propria adesione alla campagna, cambiando l’immagine del profilo Facebook con una targata “Love has no Labels“.
Nel lungo clip con esempi positivi di “non-discriminazione”, non mancano gli esempi di coppie omosessuali con i loro figli.
E qui nascono i problemi, perché in questo caso si mescola una campagna sociale con una campagna di advocacy…motivo per cui occorre ricorrere al dizionario tecnico: per campagna sociale si intende un progetto di comunicazione che intende richiamare la popolazione al rispetto o alla salvaguardia di valori universalmente condivisi (es. la protezione dell’ambiente, la lotta contro la droga, la lotta al razzismo, ecc). Si chiama invece campagna di “advocacy” un progetto di comunicazione che sostiene cause controverse e comunque non condivise da tutti (es. contro la caccia, a favore della cannabis terapeutica, ecc). Entrambe hanno diritto di cittadinanza, come tutte le opinioni, ma la letteratura specializzata è concorde nel ritenere che una campagna di advocacy non rientri per definizione nei compiti degli enti pubblici.
La recente polemica esplosa dopo le dichiarazioni sulla famiglia “naturale” da parte di Dolce & Gabbana, che hanno scatenato le altissime proteste di Elton John, dimostrano che una campagna che intenda affermare come famiglia naturale anche quella omosessuale e con figli avuti con un utero o un seme altrui, è senza alcun dubbio una campagna di advocacy. La grande maggioranza della popolazione, infatti, non la pensa affatto come la rumorosa lobby gay ritiene tutti debbano pensarla, e rilevanti distinguo vengono espressi proprio da omosessuali dichiarati come D&G e Aldo Busi.
Che siamo su un terreno molto scivoloso e anche socialmente pericoloso lo dimostra la irrisolta contraddizione tra il commovente e ampiamente comprensibile desiderio di paternità di Elton John e il vergognoso sfruttamento a pagamento di un utero di una qualche povera donna per soddisfare quel desiderio, strumentalizzando gravemente un’altra “persona”, che solo per il fatto di essere povera e bisognosa, non può essere umiliata al punto di essere considerata un brodo di cultura per la crescita di un embrione.
Più che d’accordo quindi nel fare battaglie contro ogni tipo di discriminazione, inclusa quella sessuale, o nel ricercare soluzioni che diano pari diritti a persone dello stesso sesso che hanno deciso di vivere insieme. Per nulla d’accordo nel promuovere, sostenere, o diffondere campagne che privilegiano comportamenti particolari a scapito del rispetto dell’integrità morale e materiale di altre persone, come succede nel caso dell’utero in affitto.
Le ragioni sono molte ben descritte e spiegate nel testo di Busi: Fecondazione e gay, quel debito da ripagare alle madri surrogate.