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SosTech. Scuola digitale: quanto siamo in ritardo?

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L’educazione digitale in Italia e il Pnsd

Sono passati circa venti mesi dal lancio del Piano nazionale Scuola digitale (Pnsd), ideato dal Governo per portare la connessione al 97% degli istituti scolastici italiani. La Ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ne ha da poco presentato i risultati: sono state cablate 1.500 scuole ed entro il 29 settembre verranno messi a bilancio 2,5 milioni per il digitale nelle scuole di periferia, con interventi anche per il registro elettronico, i siti web per le scuole, l’avvio delle iniziative di educazione all’imprenditorialità e per la diffusione delle materie scientifiche, senza dimenticare l’individuazione dei “future labs” (nel numero di 18 italiani).

Viaggia insomma a passo spedito il piano che tenta di limare il profondo gap, grazie alla connessione ormai sempre più diffusa anche a livello privato (su SosTariffe.it si possono trovare le offerte più convenienti per ADSL e fibra ottica), tra l’Italia e altri Paesi, prima di tutto gli Stati Uniti. Ma quanto terreno c’è recuperare?

Realtà aumentata e realtà virtuale

È un esercizio che forse non andrebbe fatto – troppe sono le differenze a livello strutturale con il sistema educativo, a partire dalle strategie di finanziamento e dagli obiettivi di college e università – ma confrontando lo stato dell’arte per quanto riguarda la scuola digitale italiana e quella statunitense c’è di che riflettere. In una nazione dove il coding e la programmazione sono ormai parte integrante dell’offerta formativa, non stupisce che le app siano protagoniste assolute degli ultimi trend scolastici, facendo riferimento a tecnologie avanzate come la realtà aumentata, la realtà virtuale e la mixed reality.

Non si tratta di salire sul carro del gadget più di moda al momento, ma di integrare in un sistema coerente le possibilità delle nuove tecnologie per rendere più divertente e coinvolgente una lezione di qualsiasi argomento: un approccio “immersivo” aiuta a fissare i concetti nella memoria e a fornire molte più opportunità rispetto a libro, quaderno e lavagna.

Prendiamo ad esempio Unimersiv: è la più grande piattaforma educativa di realtà virtuale, che permette agli studenti, grazie al visore, di visitare Stonehenge o l’antica Grecia, esplorare il corpo umano o la ISS o trovarsi a tu per tu con un Tyrannosaurus Rex. Oppure le potenzialità di una piattaforma come Magic Leap – difficile guardare il video introduttivo senza rimanere letteralmente a bocca aperta – con il suo visore retina che sovrappone immagini generate al computer, per vedere ad esempio una balenottera azzurra che si tuffa nel mezzo della palestra di una scuola (per capire il giro d’affari, questa startup vale già quattro miliardi di dollari e mezzo senza aver ancora venduto praticamente nulla).

Imparare, per gioco

Ma non c’è solo la realtà virtuale o aumentata tra i trend scolastici più interessanti d’America. I ragazzi in età scolare hanno una grande dimestichezza coi computer e coi sistemi digitali dovuta anche alla loro passione per i videogame: ecco perché la gamification, cioè, in soldoni, la possibilità di trasformare qualsiasi attività in una sorta di gioco con difficoltà diverse, obiettivi e premi, è una strategia sempre più utilizzata anche in ambito scolastico, grazie anche al feedback immediato che questi approcci sono in grado di fornire. Da qui all’insegnamento personalizzato il passo è tutto sommato breve: una piattaforma come Osmosis, usata per gli studi medici, permette di gestire procedure di self-assessment della propria preparazione, in una “conoscenza diffusa” che permette di identificare al volo i punti in cui la propria preparazione è debole e si dovrebbe quindi approfondire.

Ripensare le classi

Naturalmente, gli USA sono il paese dove Google distribuisce la bellezza di tre milioni di Chromebook per farli usare agli studenti, e i finanziamenti per rendere tablet e smartphone comuni in una classe quanto i banchi o la lavagna ormai non si contano. In Italia, al contrario, se va bene continua a proliferare il modello dell’”aula informatica”, laddove ogni singola aula dovrebbe essere dotata di apparecchi in grado di connettersi alla Rete. Tutto questo a maggior ragione in una nazione dove a due anni i bambini maneggiano con cognizione di causa i device di famiglia, scegliendo quale cartone animato guardare su YouTube o salvando le fotografie preferite.

Questo non significa che oltreoceano funzioni tutto a meraviglia, è chiaro. Però l’esempio degli Stati Uniti permette di cogliere prima che sia troppo tardi quali saranno le grandi tendenze dei prossimi anni in materia educativa: ad esempio si sta cominciando ad abbandonare il classico modello di aula con i banchi rivolti verso la cattedra in favore di un o spazio più collaborativo. Gli SMARTdesk, nella fattispecie, sono banchi componibili che possono essere disposti secondo le esigenze in modo da creare qualcosa di più simile a un open space di Google o Facebook che a una classe, enfatizzando l’aspetto di sinergia e collaborazione tra gli studenti e tra gli studenti e l’insegnante verso il raggiungimento di un obiettivo, invece di un apprendimento passivo dove il docente spiega e gli studenti ascoltano.

Intelligenza artificiale per l’addio alla burocrazia

Qualcuno a questo punto storcerà il naso, con un po’ di nostalgia, ma è innegabile che alcune situazioni siano oggettivamente migliorabili: la burocrazia, ad esempio, è un vero incubo per dirigenti scolastici, insegnati, studenti e famiglie, come del resto già capita con la ricerca universitaria. Ecco perché negli Stati Uniti l’intelligenza artificiale viene sempre più utilizzata per ottimizzare i tempi e l’uso della forza lavoro, spesso impiegata in mansioni dequalificanti invece di sfruttare altrove le proprie competenze: la Deakin University australiana ad esempio adotta una sorta di “bot” progettato da IBM per un servizio di assistenza virtuale agli studenti, disponibile 24 ore sue 24 e sette giorni su sette. Si è calcolato che nel primo trimestre dalla sua introduzione, il servizio abbia trattato più di 30.000 domande, permettendo allo staff umano di gestire quelle più complesse.

In questo senso progressi arrivano anche dai chatbot, che grazie alla NLP (Natural Language Progression) possono acquisire la capacità di interagire in modo mirato e personalizzato con gli utenti, ad esempio aiutando gli studenti a richiedere un finanziamento per i loro studi o a pagare le bollette. E chi già paventa una scuola di robot può stare tranquillo: l’obiettivo è quello di creare strumenti che possano aiutare i docenti a insegnare meglio, fornendo un aiuto concreto per le loro necessità. Tutt’altro che un esercito di teste poco pensanti.

Fonti: http://www.scuola24.ilsole24ore.com/art/scuola/2017-07-26/la-scuola-digitale-avanza-nuove-risorse-consolidare-innovazione-195138.php?uuid=AElvH73B

https://www.forbes.com/sites/danielnewman/2017/07/18/top-6-digital-transformation-trends-in-education/#2aaf933b2a9a

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