La origini stories, tipica specialità USA, affascinano sempre. Questo è vero soprattutto nell’ambiente hi-tech, dove ci siamo abituati a vedere giovani informatici passare nel giro di un paio d’anni dai maglioncini color pastello ai superyacht con eliporto sul tetto. Gli esordi di Facebook sono arcinoti, con Zuckerberg che rischia di farsi cacciare da Harvard nel 2003 a causa del suo programma clandestino, Facemash, dove si possono giudicare quali fossero gli studenti e le studentesse più sexy. Su Steve Jobs – il guru della meditazione zen e dell’insulto al dipendente – abbiamo una letteratura giorno dopo giorno più vasta, arricchita proprio in questi giorni da Small Fry, il memoir della figlia Lisa Jobs-Brennan, da cui prese il nome uno dei primi computer di Apple.
La nascita di PageRank
Larry Page, figlio di due professori di informatica con il pallino della musica, e Sergey Brin, emigrato a cinque anni con i suoi genitori durante la guerra fredda, sono forse meno glamour, e il successo di Google nasce in maniera meno romanzesca: due studenti di Stanford alla ricerca di un progetto per la loro tesi di dottorato e che scelgono di analizzare la struttura dei link del World Wide Web, in particolare i rapporti tra una pagina e l’altra. Da lì l’idea di sviluppare un algoritmo (PageRank) in grado di quantificare l’importanza di una specifica pagina a seconda del numero e della qualità dei collegamenti diretti verso di essa.
Nel giro di pochi mesi dalla loro intuizione, la Rete passa da un luogo dove, per farsi trovare nei motori di ricerca, è sufficiente ripetere più volte possibile il termine cercato (dando origine a trucchi che oggi ci sembrano molto ingenui, come paginate e paginate di keyword ripetute, spesso con lo stesso colore dello sfondo) a un mondo che sta per essere dominato da Google, il cui database all’epoca stava su 28 GB – l’equivalente di una moderna chiavetta. Il nome della nuova startup, fondata il 4 settembre del 1998, vent’anni fa? Deriva da googol, il buffo termine inventato nel 1920 dal nipotino del matematico Edward Kasner per indicare 10 alla centesima potenza.
La grande potenza di oggi
Oggi Google impiega 85.000 persone, e Alphabet, la public holding che la controlla, fattura più di 110 miliardi di dollari all’anno; Page e Brin sono rispettivamente la nona e la decima persona più ricca del mondo. In vent’anni, Google ha saputo plasmare il modo in cui viviamo come forse nient’altro prima, in questo un po’ simile ad Apple ma con un fattore di diffusione ben più alto: dal motore di ricerca alla posta elettronica, dai sistemi operativi di PC e telefonini (“Ok, Google!”) all’intelligenza artificiale, dalla realtà virtuale alla fibra ottica, dalla domotica. E con tutto questo sono arrivati anche i guai, in particolare per quanto riguarda la privacy, l’elusione delle tasse, la censura, la neutralità delle ricerche: accuse forse inevitabili per un colosso del genere, ma che hanno finito quasi con il ribaltare il motto sbarazzino della vecchia startup, “Don’t be evil”, non essere malvagio, quando sempre più persone sono convinte che il volto minaccioso della cultura corporativa oggi passi attraverso uno schermo touch.
I guai con la politica
Il problema principale, secondo i critici, è proprio la dimensione e la pervasività di Google, sempre più lontana dalla sua immagina sbarazzina con i ping pong per i dipendenti nella sede di Mountain View e le presentazioni fatte con i rollerblade ai piedi. In maniera nettamente differente dai rapporti più che cordiali tra Silicon Valley e l’amministrazione Obama (in particolare per Google grazie a figure come Eric Schmidt e Megan Smith), Donald Trump non le sta certo mandando a dire ai colossi dell’informatica, accusando i risultati delle ricerche di essere “truccati” e di “sopprimere la voce dei conservatori”. «Google, Twitter e Facebook camminano su un terreno molto, molto pericoloso, e devono stare attenti», ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti. Il ruolo dei tre giganti nelle passate elezioni, con il problema degli hacker e dei bot in grado di influenzare, almeno in teoria, preferenze e movimenti d’opinione, ha fatto definitivamente trascendere il tecnico nel politico. E sono sempre di più le personalità dell’era di Internet che si trovano a dover testimoniare di fronte al Senato per motivi molto seri (gli ultimi in ordini di tempo il COO di Facebook, Sheryl Sandberg, e il CEO di Twitter, Jack Dorsey).
Obiettivo: innovare ancora
In questo contesto Google sente forte l’esigenza di non smettere di innovare, accusa che del resto è già stata più volte rivolte ad Apple, che per molti sembra avere perso la sua spinta rivoluzionaria in favore di un’accorta gestione d’impresa. In particolare Alphabet, con la sua divisione “Other bets” – che include più o meno tutto ciò che non riguarda direttamente Google – ha in cantiere progetti di certo affascinanti, a partire dal Wi-Fi tramite palloni aerostatici, per portare la banda larga anche nelle zone più remote, ad Access, un tempo conosciuta come Google Fiber, incentrata invece sulle infrastrutture a fibra ottica, ormai lo standard per i Paesi più avanzati e sempre più diffuse anche dove un tempo non arrivava nemmeno una normale ADSL (su SosTariffe.it potete sempre trovare le tariffe più convenienti). E poi le iniziative più esoteriche, in gran parte derivate dalle acquisizioni di startup promettenti: DeepMind, per l’intelligenza artificiale; Calico, il cui scopo – anche se quasi tutto è avvolto nel più totale mistero – è raggiungere la vita eterna, o perlomeno prolungare di molto l’aspettativa di vita; Project Jacquard, che punta tutto sull’integrazione della tecnologia direttamente nei tessuti, per dare vita a vestiti interattivi e sensibili al tocco; Waymo, impegnata nelle auto senza conducente; Sidewalk Labs, specializzata nell’innovazione urbana; Verily, che raccoglie informazioni sulla salute per elaborare pratiche salvavita (uno degli ultimi esperimenti riguarda la sterilizzazione delle zanzare per evitare la diffusione della malaria e della dengue). Se tutto questo basterà per ricostruire, nell’immediato futuro e in quello più remoto, l’immagine di una società dal volto amichevole e interessata ad altro che non i nostri preziosi dati per bombardarci di pubblicità mirate, è ancora tutto da vedere. Ma nessuno di certo pensa che i primi vent’anni di Google possano essere anche gli ultimi.
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