«Tutta roba chimica». Lo pensiamo con diffidenza quando ci vengono propinate pietanze di sospetta provenienza industriale, che c’immaginiamo traboccare di conservanti, coloranti e aromi non meglio precisati, pronti ad assaltare senza pietà il nostro organismo. Per quanto in realtà tutto sia chimica – come ci ricordano pazienti divulgatori come Dario Bressanini – e sebbene anche le etichette più rassicuranti come bio o naturale spesso si rivelino semplici strategie di marketing, il cibo, soprattutto in Italia, rimane uno degli ultimi settori dove mal tolleriamo l’intervento della tecnologia. Gli OGM ci spaventano (anche se ne facciamo largo uso senza nemmeno saperlo), la prospettiva di un futuro senza carne rossa tre volte a settimana scatena un terrore atavico, guardiamo chi per comodità si affida a beveroni sostitutivi come il Soylent o similari come fossero alieni: eppure anche qui l’hi-tech non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi.
Il cibo a domicilio
L’innovazione in apparenza più semplice nel mondo del cibo – e allo stesso tempo una delle più rivoluzionarie – riguarda senza dubbio il mondo del delivery: basta avere lo smartphone sottomano, una connessione (su SosTariffe.it potete trovare sempre le migliori proposte per quanto riguarda la fibra ottica e Internet mobile per la telefonia) e in un attimo si inoltra l’ordine al proprio ristorante preferito, per riceverlo direttamente a casa in pochi minuti (in teoria) e gustarselo sul divano, pregustando un accanito binge-watching su Netflix. Internet ha reso la consegna a domicilio tutt’altra faccenda rispetto a qualche anno fa, e i numeri che circolano sono abbastanza impressionanti. Sia Amazon che Uber nelle ultime settimane hanno cercato di acquistare Deliveroo, che solo l’anno scorso è riuscita a raggranellare 482 milioni di dollari di finanziamento: ora la startup fondata nel 2013 da Will Shu e Greg Orlowski, che permette consegne rapide in più di 200 città, vale 2 miliardi di dollari e ha già fatto sapere che non prenderà nemmeno in considerazione offerte d’acquisto che non siano “sensibilmente superiori” al valore attuale.
La seconda pelle di frutta a verdura
Ma c’è molto di più nel settore del food tech, e buona parte delle startup o aziende già di un certo nome che operano in questo ambito propongono idee che fanno storcere il naso ai più tradizionalisti, ma che potrebbero al tempo stesso rappresentare la soluzione dei problemi legati alla sostenibilità della nostra alimentazione. Ad esempio, il problema dei rifiuti organici e del cibo che marcisce prima del tempo: Apeel Sciences, azienda di Santa Barbara, in California, ha messo a punto Apeel, una sorta di “seconda pelle” per frutta e verdura, in grado di mantenere l’umidità del prodotto all’interno ma senza far penetrare l’ossigeno, in modo da non far ossidare il prodotto. Apeel è un prodotto ricavato dalle piante, senza odore né sapore e assolutamente sicuro da ingerire, che permette al cibo di durare molto di più senza che sia necessario ricorrere a conservanti – questi sì in non pochi casi dannosi – o a forzare i ritmi della natura, ad esempio cogliendo la frutta dall’albero quando non è ancora matura.
Finless Foods, per rendere obsoleta la pesca
Altro problema: tutti amiamo il sushi, il tonno è buonissimo e però la sua pesca selvaggia è destinata a renderlo introvabile, con gravi danni non solo per l’ecosistema ma anche per le nostre tavole. Idem il salmone, le aragoste, i gamberi. Le cozze? Quelle non mancano, ma abbondano pure i rischi se la provenienza non è più che sicura. Insomma, secondo i fondatori di Finless Foods la pesca tra qualche anno sarà obsoleta e sarà possibile creare frutti di mare e pesci direttamente in laboratorio (con buona pace, verrebbe da dire, delle ripercussioni economico-sociali per un intero settore). Secondo i calcoli dell’azienda, mangiamo il doppio del pesce di 50 anni fa, e la quota, con questi ritmi, è destinata a raddoppiare ulteriormente nel 2030. Inquinamento, cambiamento del clima e scarse (nonché poco rispettate) regolamentazione per la pesca stanno mettendo gravemente a rischio le scorte ittiche, ed è cosa nota che i pesci di dimensioni maggiori – come il tonno, appunto – rischiano di essere pieni di mercurio. A Finless Food creano direttamente le proteine del pesce e le trasformano in filetti pronti per essere consegnati a case e ristoranti, promettendo lo stesso gusto a un prezzo conveniente e soprattutto senza rendere gli oceani degli autentici deserti.
La “carne non carne” di Beyond Meat
E la “carne finta”? È arrivata anche in Italia, e per una volta non ci si riferisce ad anonimi cubetti di tofu o cotolette di seitan con la consistenza d’un’infradito. Carne quasi autentica, succosa, perfino grassa, senza che sia stato torto un capello a un solo bovino. Il frutto delle ricerche della startup californiana Beyond Meat è arrivato anche in Italia, nella catena di hamburger Well Done, che fin dalla sua fondazione ha sempre insistito molto su concetti come sostenibilità ambientale ed etica nella consumazione del cibo. La “fake meat” che ha fatto impazzire gli Stati Uniti, tanto che celebrità come Leonardo Di Caprio sono dichiarate supporter, permette di abbattere le emissioni di gas serra dell’87%, con un risparmio del 95% di terra e del 75% di acqua normalmente utilizzate per la lavorazione della carne animale, come noto un lusso che il nostro pianeta, almeno con i ritmi odierni, non può più permettersi. È un prodotto (in realtà sono due quelli disponibili da Welldone: uno vegetariano e uno vegano) senza Ogm, antibiotici, ormoni, ma con tutto il ferro e gli elementi nutritivi della carne autentica.
La bistecca? Stampata in 3D
Eppure, c’è chi non considera nemmeno la carne di Beyond Meat la soluzione: per quanto assomigli davvero all’originale, non ha davvero una consistenza fibrosa e soprattutto è solo un macinato, adatto quindi ai fast-food e poco altro. Per Giuseppe Scionti, ingegnere biomedico italiano, la soluzione è in Novameat, la sua startup che promette di stampare in 3D le bistecche, organizzando le proteine vegetali utilizzate a livello nanometrico come se fossero fibre muscolari, ma al tempo stesso “ottimizzandole”, ovvero senza ricreare le terminazioni nervose e gli altri elementi che, al fine della palatabilità e dell’alimentazione, non hanno alcuno scopo. L’obiettivo (per ora Novameat ha preparato due prototipi, petto di pollo e bistecca di manzo) è arrivare a proporre carne sintetica al prezzo di 20 centesimi al chilo. E se per qualcuno abbandonare la fiorentina è impensabile, può darsi che in un futuro non molto remoto non ci siano più alternative; e magari senza sacrificare troppo il gusto.
Fonti:
https://www.businessinsider.com/uber-in-talks-acquire-deliveroo-uber-eats-report-2018-9?IR=T
https://www.cbinsights.com/research/global-food-delivery-tech-funding-q315/