Il 2020 è partito con l’emergenza smog in quasi tutte le grandi e medie città italiane. Lo confermano i dati provenienti dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente e dalle centraline delle diverse Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa).
Da un punto di vista storico, niente di nuovo nell’era industriale e post industriale. Negli ultimi anni, le zone pianeggianti e le vallate, caratterizzate dalla presenza di città e distretti produttivi, anche a causa di condizioni geografiche e climatiche particolari, soffrono sempre di inquinamento elevato nei mesi che vanno da dicembre a febbraio. Polveri sottili (PM10) e anidride solforosa (SO2), ossidi di azoto (Nox), piombo, ozono e diossine varie, sono solo i più diffusi e conosciuti agenti inquinanti, ma la lista è lunga.
Tutti questi agenti altamente inquinanti rendono pessima la qualità dell’aria e sono la causa di un gran numero di malattie cardiocircolatorie, degli occhi, della pelle e secondo alcuni studiosi anche del nostro cervello. Nel nostro Paese, secondo una ricerca pubblicata da The Lancet, sono state registrate più di 54 mila morti premature dovute ad esempio al particolato fine.
Secondo altre ricerche, però, come quella pubblicata dalla European Environment Agency, le morti precoci per particolato sono almeno 58.600.
Per risolvere il problema ci sono città che bloccano completamente il traffico ai veicoli più inquinanti (di solito Euro 1, 2, 3 o le celebri “domeniche ecologiche”, che comunque male non fanno), che vietano la circolazione di auto a diesel (anche Euro 6, come a Roma), che promuovono l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici e alternativi (biciclette, mezzi di micromobilità), che chiedono ai cittadini di lasciare la macchina a casa. Ma sono soluzioni efficaci? Oltre a spazientire il cittadino, servono davvero a qualcosa queste ordinanze?
In molti accusano le amministrazioni cittadine di scegliere il male minore, o addirittura di non saper proprio cosa fare per abbattere lo smog. In un articolo di oggi su La Repubblica, Cinzia Perrino, direttore dell’Istituto sull’Inquinamento atmosferico (IIA) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), ha chiarito che lo stop al traffico “incide poco sulla qualità dell’aria che respiriamo”.
“Sono 20-30 anni che ci rifugiamo in misure come queste e poco viene fatto per soluzioni che incidano in maniera sensata e a lungo termine”, ha spiegato Perrino.
“Il contributo diretto del traffico relativo alle polveri Pm10 è stimabile intorno al 25%. Vietando la circolazione ai diesel incidiamo dunque solo su quel 25% ma nel frattempo tanti altri veicoli continuano a circolare, più o meno la metà di quelli abituali. A questo punto, il blocco, si potrebbe dire che incide per poco più del 12%”.
Intendiamoci, le auto inquinano eccome, sono un problema serissimo, solo che non possiamo immaginare di affrontare la sfida dello smog “esclusivamente” a partire dal blocco del traffico. Non basta. Perché allora si parte sempre e subito dal traffico urbano, quando i livelli di smog sono alle stelle? “Perché è il più controllabile. Un blocco del traffico è la cosa più semplice per tentare un’azione immediata, anche se l’efficacia è minima”, ha chiarito il Direttore del Cnr.
Il blocco del traffico, va aggiunto, è anche la decisione più semplice da prendere, soprattutto per il maggior impatto a livello di comunicazione, istituzionale quanto politica.
Secondo l’Unrae, invece, il blocco della circolazione di tutti gli autoveicoli diesel, compresi gli Euro 6 di ultima generazione, è “una estensione senza precedenti e senza alcuna influenza sulla qualità dell’aria in città, poiché queste motorizzazioni – che rappresentano solo l’8% del totale dei veicoli circolanti a Roma – hanno emissioni di particolato e ossidi di azoto prossime allo zero”.
“L’impatto ambientale di tale provvedimento sarà quindi assolutamente irrisorio – si legge in una nota della federazione – specie considerando che potranno liberamente circolare autoveicoli a benzina Euro 3, con oltre 19 anni di vita e con il doppio di emissioni di ossidi di azoto rispetto ai diesel Euro 6, nonché ciclomotori estremamente vetusti ed inquinanti, per tacere di mezzi pubblici che hanno oltre 15 anni di vita e sono autentiche “bombe ecologiche”.
Oggi, ci fa sapere l’Ispra, la fonte di maggiore inquinamento atmosferico sono i sistemi di riscaldamento che usiamo massicciamente proprio durante l’inverno. A livello mondiale, il 25% delle emissioni inquinanti deriva dai sistemi di riscaldamento, secondo l’IPCC. In Italia, stando ai dati Ispra, il contributo fornito dal settore del riscaldamento da edifici all’inquinamento atmosferico in termini di CO2 è pari a oltre il 60% del totale delle emissioni, il restante è da addebitare ai trasporti e alle attività industriali (compresa la grande industria agroalimentare).
Le automobili, per chiudere, restano tra i maggiori imputati nel processo allo smog (dobbiamo abbandonarle a favore dei trasporti pubblici, o almeno acquistiamo veicoli a “bassissimo/quasi zero” impatto ambientale), ma vanno anche fatte alcune considerazioni. Ormai siamo alla generazione Euro 6 e forse di più non si potrà fare, in termini di riduzione delle emissioni e in particolare di abbattimento delle polveri sottili. Secondo molti studiosi, il problema principale è che quando prendiamo la nostra automobile il primo risultato è un costante ri-sollevamento delle polveri sottili cadute al suolo.
Gli agenti inquinanti cadono quasi subito a terra, è il passaggio continuo dei veicoli in strada a risollevarli in aria (motivo per cui, quando piove la qualità dell’aria migliora sensibilmente, questo perché le strade vengono pulite dagli inquinanti) e a farceli respirare in continuazione. Una città dovrebbe puntare di più sui trasporti pubblici “puliti” (elettrici o a idrogeno, ad esempio) e meno sulla mobilità privata, visto l’assurdo numero di auto di proprietà che c’è in Italia e visto che li usiamo anche per spostamenti davvero minimi, che forse potremmo fare a piedi.