Lo smartphone a scuola? Il dibattito è aperto, complesso, seducente, noioso. Sembra nuovo eppure non lo è affatto. Almeno per noi, figli della generazione analogica nata, cresciuta e scolarizzata prima dell’avvento dei dispositivi digitali, è come se lo smartphone fosse sempre esistito. Lo inseguiamo da decenni fantasticando su cinema, fumetti, musica, televisione, videogiochi. Lo abbiamo progettato sempre più prossimo e simile a noi. Infine lo abbiamo felicemente accolto e lo abbiamo regalato a tutti, dai nostri genitori ai nostri figli. E abbiamo così contribuito a concretizzare l’utopia bicefala del Novecento che ci vuole tutti ricchi e tutti uguali. E adesso ci ritroviamo – nostro malgrado – a essere (considerati) una postazione multimediale portatile.
Ma non dite, per favore, che questa chimera tecnologica “produca” alcunché e possa essere causa di qualcosa. Semmai ne è l’effetto: del benessere (o del malessere, decidete voi), dell’industria culturale di massa, dello sviluppo economico e tecnologico centrato sui monopoli. Oppure ne è la soluzione: della noia, della sofferenza o dell’angoscia provocate dai nostri superpoteri che concorrono ad appagare una antica ambizione: “elevarci al rango di divinità, trasformarci da (semplice) homo sapiens a (onnipotente) homo deus” (Cfr. Y. N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, 2017).
Lo smartphone a scuola c’è sempre stato, nelle proiezioni, nelle aspettative, nelle ossessioni con le quali abbiamo seppellito intere generazioni di intelligenze, incatenate ai nostri desideri e alle nostre paure. E ora ci accorgiamo che lo smartphone è un problema? E per chi? Non certo per i ragazzi, che conformano la loro vita su esperienze mediate e che sanno perfettamente percepire la differenza tra la fatica insensata dei corpi e la straordinaria leggerezza del digitale. E spesso scelgono (fatevene una ragione) il digitale, perché solo un (w)ebete farebbe il contrario. Chi ritiene un delitto sostituire la penna con la tastiera è totalmente fuori strada. Non si tratta di sostituire nulla; si tratta di comprendere il significato di nuove pratiche, un significato che i ragazzi intuiscono solamente. Nell’attesa che noi adulti ne troviamo il senso profondo (ci stanno aspettando e hanno bisogno di noi!), loro intanto fanno.
Nel frattempo, la sera, ci ritroviamo a chattare su Whatsapp con i nostri conoscenti lamentandoci che i ragazzi, giustamente, non ci parlano più. Oppure continuiamo a farneticare di fake-news, di informazioni vere o false, senza comprendere che oggi nel web ci sono relazioni più che informazioni, azioni più che contenuti. Oppure ci preoccupiamo di che cosa la tecnologia starebbe facendo ai bambini, dimenticando che sono i bambini a fare qualcosa con i media (ce lo diceva Pier Cesare Rivoltella già 20 anni fa). Infine, in maniera profondamente ipocrita, li accusiamo di non leggere (invece leggono di più rispetto ai decenni passati), di non avere relazioni (e invece sono sempre proiettati verso un qualche contatto esterno al proprio io), di non saper ragionare (ma basta vedere i passi da gigante dell’evoluzione scientifica portata avanti dai ventenni).
La soluzione dove sta? Non soltanto nei decaloghi (che hanno il merito indiscusso di focalizzare l’attenzione sulle questioni), né certamente nei presunti percorsi formativi ad hoc (il suggestivo quanto classista liceo della cultura digitale) e neanche nei divieti, che hanno l’unica funzione di allenare al limite (allenamento inutile se poi altrove – magari a casa – gli stessi limiti vengono infranti sistematicamente).
La soluzione sta nell’educazione mediale per gli adulti, che chiamiamo m-educazione. Non significa educare con i media perché le tecnologie non sono in grado di educare nessuno; né soltanto educare ai media, come se non fossimo noi a produrre e diffondere messaggi e rappresentazioni. Significa educare i media stessi, perché i media siamo noi. Siamo noi a riempire di senso il nostro tempo mediale – o a svuotarlo. Siamo noi che possiamo educar-ci all’esistenza mediale attraverso il bello (e il vero) che è dentro di noi, riscoprendo il gusto e la libertà di controllar-ci nelle nostre scelte comunicative. Soltanto così lo smartphone potrà diventare il riflesso autentico della nostra umanità: fuori e dentro le aule scolastiche.
In classe è ora necessario portare non il cellulare ma l’intelligenza di adulti ritrovati. Insegnanti, genitori, educatori hanno il compito colossale di rimettersi in gioco con coraggio, di cambiare abitudini e atteggiamenti, di ritrovare la saggezza del proprio passato “analogico” e provare ad accompagnare gli studenti a comprendere il loro (e nostro) futuro, che certamente sarà digitale. È così che lo abbiamo voluto noi, ipocrisie a parte.