Sono visioni spesso conflittuali quelle che riguardano il cambiamento portato dalla pandemia nel nostro modo di lavorare e di studiare. Se dai licei in giù, fino alle elementari, la DAD è stata vista nel migliore dei casi come un male necessario – troppo importante il contatto umano e il rapporto quotidiano con i compagni di scuola, i maestri e i professori – molti studenti universitari hanno invece mostrato di apprezzare la possibilità di frequentare le lezioni e sostenere gli esami da casa: gli atenei sono molto spesso in un’altra città, con tutto ciò che ne consegue in termini di costi per gli spostamenti e l’alloggio (soprattutto in città, come Milano, dove gli affitti per gli studenti raggiungono cifre record); ed è evidente che anche in una lezione dal vivo con duecento frequentanti non potrà esserci un rapporto professore/studente stretto come alle superiori.
Una disparità di opinioni che arrivata al punto di spingere rettori, presidi e docenti universitari a lanciare l’allarme sulle sempre più frequenti richieste, soprattutto da parte delle matricole che non hanno mai sperimentato le lezioni in presenza, di sostenere parte dell’anno accademico a distanza.
Per lo smart working, il discorso è in gran parte analogo: da una parte i vantaggi sono chiari – si possono gestire meglio i tempi, si evita il traffico quotidiano all’andata e al ritorno, spese per il pranzo e così via –, dall’altra non mancano i problemi, soprattutto nelle famiglie con figli (magari a casa proprio per la DAD) con cui si deve instaurare un nuovo rapporto di convivenza non sempre facile. Il tutto senza contare che i dispositivi come i PC in casa non sono in numero infinito e che, com’è noto, la fibra ottica indispensabile per call e telepresenza non raggiunge ogni angolo d’Italia (su SOSTariffe.it si possono trovare tutte le offerte più convenienti per le connessioni Internet casa, con la possibilità di verificare la copertura della zona in cui si vive).
È difficile, insomma, trovare un bilanciamento che non scontenti nessuno: per questo anche le aziende, sia i colossi dell’hi-tech – che con lo smart working già convivono da anni – che le piccole imprese, si stanno confrontando su cosa, quanto e come portare dell’esperienza degli ultimi mesi in un nuovo modello di lavoro, magari ibrido. Con alcune domande: qual è il valore aggiunto del contatto dal vivo con colleghi, di pari grado, superiori o sottoposti, rispetto alla comodità di lavorare in remoto? E soprattutto, la produttività è la stessa in ufficio o a casa?
Smart working tra produttività e qualità della vita
Come mostra un recente articolo di Repubblica, alcuni dei maggiori giganti della finanza USA come JP Morgan e Goldman Sachs hanno messo in chiaro che l’esperienza dello smart working, per i propri dipendenti, si può considerare conclusa (per il CEO di Goldman Sachs, David M. Solomon, il lavoro flessibile è addirittura un’«aberrazione»); ma c’è anche chi, come Citigroup, punta proprio sulla flessibilità – e sulla possibilità di alternare il lavoro in ufficio con quello da casa – per confermare la sua fama di luogo di lavoro più orientato alla qualità della vita rispetto alla concorrenza nel settore finanziario. E in USA, si sa, soprattutto per questo genere di lavori, il problema non è tanto lo stipendio, sempre piuttosto elevato, quanto proprio la qualità della vita, perché sempre più persone cominciano a ribellarsi ai ritmi da workaholic profumatamente retribuiti, ma senza che ci sia il tempo di godersi il frutto del proprio lavoro.
Così, se JP Morgan prevede entro la prima settimana di luglio un ritorno di pressoché tutti i dipendenti e Goldman Sachs ha chiesto ai suoi di comunicare l’avvenuto vaccino o altrimenti sottoporsi a tamponi ogni settimana, sempre in vista di un lavoro su ritmi e modelli pre-pandemia, in Europa Deutsche Bank e UBS Group abbracciano la via della flessibilità e annunciano la possibilità per i lavoratori di dividere il proprio lavoro tra casa e ufficio. Anche perché, va ricordato, le stesse aziende possono beneficiare da un approccio di questo genere, che si può tradurre in risparmio degli spazi da acquistare o da affittare per gli uffici: un po’ come è successo per le banche che con l’avvento della finanza online hanno via via sviluppato strutture molto più snelle.
Apple e Twitter: strategie diverse
Tim Cook, CEO di Apple, ha chiesto ai suoi dipendenti di tornare in ufficio per 3 giorni alla settimana, ma un sondaggio tra i qualificatissimi lavoratori della mela ha mostrato che il 90% di loro è contrario alla fine dello smart working; ed è una rilevazione di giugno, quando la quota di vaccinati negli USA era già alta, quindi sarebbe senz’altro improprio attribuire a un comprensibile desiderio di sicurezza il “no” al ritorno in presenza. Inoltre, il 58,5% si è dichiarato preoccupato che alcuni colleghi potessero abbandonare Apple per il ritorno al lavoro non flessibile, e il 36,7% ha ammesso di aver paura di dover cambiare azienda.
Mentre Facebook per ora prosegue con la sua politica di lasciare massima libertà di scelta ai dipendenti (ma va ricordato che il modello “lavora dove e quanto vuoi, ma consegna il progetto entro la scadenza” è molto diffuso nella Silicon Valley), Twitter e Spotify hanno abbracciato una scelta decisamente rivoluzionaria: per chi lo chiederà, lo smart working potrà addirittura essere per sempre. Come si legge sul blog di Spotify, «L’efficacia non può essere misurata con il numero di ore trascorse alla scrivania, anzi, dando alle persone la libertà di scegliere dove lavorare incrementa la loro produttività». Allo stesso tempo, si tratta di una scelta volontaria, perché c’è anche un altro pericolo: che il “lavorare dove (e quando) si vuole” diventi “lavorare sempre”, senza più rispettare quel confine casa/lavoro che era inevitabile con gli spostamenti per raggiungere la sede.
Quello che si prospetta, quindi, è uno scontro tra due differenti ideologie: una che crede che la relazione umana faccia a faccia sia indispensabile per un buon lavoro, e magari teme che a casa la produttività sia inferiore; e un’altra che mira a favorire l’autogestione e allo stesso tempo diventare attraente per chi non cerca solo la carriera ma anche una buona qualità della vita. Una scelta che si intreccia anche su nuove riflessioni sui giorni di lavoro, come dimostra il recente successo dell’esperimento islandese con solo 4 giorni di lavoro a parità di stipendio, che verrà presto esteso all’86% dei contratti.