L'operazione

Si chiamerà ItsArt. Svelato il nome della ‘Netflix italiana della cultura’

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Esclusiva di IsICult: svelato il nome della annunciata “Netflix italiana della cultura”, la newco si chiamerà “ItsArt”. Capitale sociale 1 milione di euro, Presidente Antonio Garelli (CDP), in attesa della strategia e del business plan.

L’esordio, a livello mediatico, della annunciata “Netflix italiana della cultura” (definizione impropria ma ormai diffusa) non è stato dei più felici, anche perché la trasparenza sull’ardita operazione – ideata mesi da fa da Dario Franceschini, titolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – è stata limitata e finanche tardiva: siamo però oggi in grado intanto di disvelare – in anteprima – il nome della società…

L’idea della piattaforma, dopo il comunicato stampa ufficiale di Cassa Depositi e Prestiti (azionista di maggioranza), il 3 dicembre 2020, è stata oggetto di un lancio comunicazionale notevole grazie ad un lungo articolo di Riccardo Luna su “la Repubblica” del 4 dicembre, intitolato “Nasce il portale della cultura modello Netflix”. Scriveva Luna in quell’articolo a piena pagina: “è tutto deciso, compreso il nome, ancora segreto perché lo stanno registrando, ma chi lo conosce giura che ‘sarà bellissimo’”…

La conferma ufficiale del progetto, nato in pieno “lockdown”, è giunta a distanza di 8 mesi dal primo “lancio” da parte del Ministro Franceschini, avvenuto il 18 aprile: “stiamo ragionando sulla creazione di una piattaforma italiana che consenta di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento, una sorta di Neftlix della cultura” (così “il Sole 24 Ore” del 19 aprile 2020, rilanciando un annuncio manifestato il giorno prima durante la trasmissione “Aspettando le parole” curata da Massimo Gramellini su Rai3; il 7 maggio l’idea viene rilanciata dal Ministro in occasione di una informativa in Aula alla Camera, e successivamente ribadita in varie occasioni, ed elevata a norma di legge con il Decreto Legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, convertito nella legge n. 77 del 17 luglio 2020, ex art. 183 comma 10).

Un “naming”… bellissimo?! “ItsArt”…

Ecco svelato il mistero: la piattaforma si chiamerà “ItsArt” (bellissimo il “naming”?!) o comunque questo è certamente il nome della società per azioni che è stata costituita a Roma, di fronte al pubblico notaro Paolo Cerasi, il 22 dicembre scorso, venti giorni dopo il comunicato stampa ufficiale diramato il 3 dicembre dall’ufficio stampa della potente Cassa Depositi e Prestiti, presieduta da Fabrizio Palermo dal luglio 2018, manager pubblico sostenuto – tra gli altri – dal Ministro Luigi Di Maio. Ed è opportuno ricordare che si deve proprio all’attuale titolare del Ministero degli Esteri l’idea di una… “Netflix italiana” (vedi il post che ha pubblicato sul sito “ilblogdellestelle” il 1° luglio 2018, dal titolo significativo: “Le tv tradizionali hanno i giorni contati, ma la prossima Netflix può essere italiana”): sicuramente non si tratta soltanto di una coincidenza…

Autorità Garante della Concorrenza: chi ha manifestato osservazioni sulla “newco” Cdp + Chili entro il 30 dicembre 2020?

La novella società è stata tempestivamente iscritta presso il registro delle imprese, il giorno prima di Natale, il 24 dicembre, e pochi hanno certamente notato che notizia della imminente “newco” è stata data anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: in effetti, Agcm ha pubblicato il 22 dicembre, sul proprio sito web, un “avviso di operazione sottoposta a valutazione dell’Autorità ai sensi dell’art. 16 della legge 287/1990”. L’iniziativa viene così descritta da Agcm (che classifica il dossier con il numero C12346): “l’Operazione in esame costituisce una concentrazione ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c, della legge n. 287/90, nella misura in cui realizza la costituzione di un’impresa comune soggetta al controllo congiunto delle parti”; le “parti” sono “Cassa depositi e prestiti S.p.A. (partecipante a impresa comune) Chili S.p.A. (partecipante a impresa comune)”.

I settori interessati e le posizioni detenute dalle “parti”:l’Operazione interessa il settore della vendita al dettaglio dei servizi televisivi a pagamento (mercato della pay-tv), di dimensione geografica nazionale, erogati via internet (Ott)”. Agcm precisava che il 30 dicembre 2020 era il termine ultimo per inviare “osservazioni”.

Sarà interessante sapere “se” e “chi” ha inviato queste possibili osservazioni da parte dei “terzi interessati”. In verità, i “terzi” potenzialmente interessati sono, almeno sulla carta, tanti: in primis Netflix, ma anche Rai, o Tim o Sky (basti pensare al canale Sky Arte…) ed altri ancora (finanche la franco-tedesca Arte.Tv distribuita anche in Italia)… Questo avviso viene pubblicato il 22 dicembre 2020, il giorno stesso della costituzione della spa di fronte al notaio. Nessun quotidiano o agenzia di stampa ha rilanciato questa notizia, di cui non si trova traccia alcuna nemmeno su web (fatta salva giustappunto la segnalazione sul sito dell’Autorità stessa).

Da segnalare che un eventuale sito web potrebbe incontrare problemi, considerando che c’è un illustratore americano, G. L. (Jerry) Boschert, che ha registrato www.itsart.com

Avendo avuto chance di consultare i documenti relativi alla costituzione della novella società, si ha sostanzialmente conferma di quel che era stato annunciato, sia come oggetto sia come partenariato.

ItsArt spa: l’oggetto statutario ed il Cda (3 consiglieri Cdp, 2 Chili)

L’articolo 5 dello Statuto della “newco” ItsArt recita che “la società ha per oggetto la realizzazione e la gestione di una piattaforma digitale (la “piattaforma cultura”) per la fruizione del patrimonio culturale e di spettacoli, in conformità con l’articolo 183, comma 10, del Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34 (il “Decreto Rilancio”), nonché il relativo approvvigionamento, la commercializzazione la distribuzione di contenuti”.

Si ha conferma che il 51 % delle azioni è detenuto da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), a fronte del 49 % detenuto da Chili società per azioni, che, in sede di costituzione, apportano rispettivamente 510.000 euro la prima e 490.000 euro la seconda.

Svelata anche la composizione del Consiglio di Amministrazione, formato prevalentemente da giovani: Presidente è Antonio Garelli (classe 1985), consiglieri sono Sabrina Fiorino (1975), Antonio Caccavale (1983), Ferruccio Ferrara (1962), Giano Biagini (1978). Presidente del Collegio Sindacale è stato nominato Roberto De Martino. La società di revisione designata è Deloitte & Touche.

È interessante osservare come il Cda sia prevalentemente stato scelto in “casa” Cdp, ed è opportuno tracciare un sintetico profilo identitario dei componenti il Consiglio:

  • il Presidente Antonio Garelli, dopo sette anni in Bain & Co, è in Cassa Depositi e Prestiti dal 2017, dapprima come Responsabile della Pianificazione e Controllo delle Aree di Business e Finanza, e dal 2019 come Responsabile dell’Area Iniziative Digitali e Sociali;
  • Sabrina Fiorino, assunta come dirigente in Cdp dall’aprile 2020 ma certamente “in quota” Mibact, è una storica dell’arte, restauratrice e conservatrice e curatrice, organizzatrice culturale, titolare della società in nome collettivo Artis, fondata vent’anni, nel cui ambito ha promosso nel 2013 – insieme alle giovani storiche dell’arte Claudia Canalini, Nicoletta Provenzano e Caterina Salvagno – il gruppo GmpProgettoCultura (“Gmp” è un acronimo che sta per “gioiose macchine da guerra”), che ha realizzato varie iniziative culturali per Fintecna Cdp (tra cui una analisi critica della storica rivista di Finmeccanica, “La Civiltà delle Macchine”), oltre ad aver avviato nel 2013 la ricognizione e catalogazione del patrimonio artistico di Cdp ereditato dall’Iri; nel 2019, ha pubblicato il libro “Matera, le 100 Meraviglie (+1)” curato assieme alla collega Claudia Canalini, con fotografie di Fabio Muzzi, edito da Typimedia Editore;
  • Antonio Caccavale è stato fino al febbraio 2020 Responsabile del Media Management – Media, Social Platforms and Content di Tim – Telecom Italia Mobile (a lui faceva capo anche la gestione del budget pubblicitario), gruppo in cui era entrato nel 2016 venendo da Italo, e nel marzo 2020 è divenuto Responsabile Communication and Engagement di Cdp;
  • Ferruccio Ferrara è Presidente del fondo Negentropy Capital Partners (socio di maggioranza di Chili) ed ovviamente membro del Cda di Chili spa (che è presieduta da Giorgio Tacchia);
  • Giano Biagini, Direttore Amministrativo e Finanziario e Controllo di Chili, ha anche una piccola quota di azioni di Chili spa.

Quindi, di fatto, su 5 membri del Cda, ben 3 sono espressione di Cdp, tra cui il Presidente.

La “mano pubblica” sembra prevalere sull’azionista privato, in una operazione che appare complessivamente ancora piuttosto confusa a livello di marketing.

Va segnalato che, a parte forse Antonio Caccavale (ex Tim) e Ferruccio Ferrara e Giano Biagini (forti dell’esperienza in Chili come “over the top”), nessuno del Cda sembra possa vantare un know-how specialistico in materia di economia dei media e management di imprese del settore audiovisivo/multimediale/digitale… Sabrina Fiorino è invece senza dubbio l’unico consigliere con competenza specifica nel settore artistico.

Da osservare anche che 2 dei 3 consiglieri espressi da Cdp (Sabrina Fiorino e Antonio Caccavale) sono entrati nel gruppo guidato da Fabrizio Palermo soltanto da pochi mesi…

Sarà interessante comprendere da chi sarà formato il top management della novella intrapresa.

Allo stato dei fatti, non si diradano le nebbie che abbiamo già segnalato su queste colonne (vedi “Key4biz” del 7 dicembre 2020, “La ‘Netflix della cultura italiana’. Dubbi e perplessità”).

Le precisazioni di Chili Tv sulla “newco”

Da segnalare che il 12 dicembre 2020, Chili aveva deciso di chiarire in qualche modo il suo ruolo in merito al progetto che vede la realizzazione della piattaforma: la società – specializzata nel business “Tvod” (ovvero “transactional video on demand”) – ha ritenuto di dover manifestare alcune precisazioni a seguito di “notizie non vere e fuorvianti” riportate nel web. Da osservare che queste note di Chili Tv non sono state riprese da nessuna testata giornalistica “mainstream”, ed anche su web si registrano pochissimi rilanci.

Chili ha sentito l’esigenza di sottolineare di essere una “società finanziata interamente da privati”, ovvero persone fisiche, fondi d’investimento e società che operano nel suo stesso mercato di riferimento. I finanziamenti, fin dalla sua nascita (2012), sono stati utilizzati al fine di creare una piattaforma, con possibilità di crescita internazionale, in grado di generare un adeguato ritorno economico nel tempo: Chili ha precisato che – così come altri “player” che operano nel suo stesso mercato – è necessario sostenere delle perdite durante i primi anni di attività, prima di poter raggiungere un completo livello di redditività…

Nonostante ciò, comunque, la società afferma che il suo livello di indebitamento finanziario è “minore rispetto a quanto indicato dalla stampa”, ma non ha precisato il… “quantum”, ed i bilanci depositati, in rosso profondo, parlano piuttosto chiaro: la società, oggettivamente, stenta a decollare.

Chili ha dichiarato di aver “partecipato nel mese di agosto 2020 ad una gara insieme agli altri principali players di mercato – pubblici e privati, italiani e non – per costituire una joint-venture (JV) con Cdp, la cosiddetta ‘Piattaforma della Cultura’”. Va però precisato che non esiste la minima evidenza pubblica di questa “gara” che sarebbe stata promossa da Cdp: da segnalare che Cdp, nel comunicato stampa ufficiale diramato il 3 dicembre, non ha usato il termine “gara”, bensì “procedura competitiva aperta” (rispetto alla quale non è dato conoscere il livello di pubblicità, dato che, dell’iniziativa, non si reperisce alcuna traccia su web). O si è trattato di “beauty contest” ad inviti, manifestato a soggetti con caratteristiche predefinite?! Perché Cdp (o lo stesso Mibact) non rivela chi sono stati i “competitor”? E qual è stato il vantaggio competitivo identificato in Chili?!

Secondo alcune fonti, l’invito a manifestare interesse sarebbe stato comunicato da Cdp il 3 agosto, con chiusura dei termini il 6 agosto: curiosa dinamica, anche questa… Da cosa è dettata tutta questa fretta, e peraltro nella prima settimana di agosto?!

Chili ha rimarcato inoltre di essere sotto il controllo di Negentropy, società fondata da Ferruccio Ferrara, con sede a Londra, e dai fondi di investimento gestiti dalla stessa. La gestione della società, invece, fin dal 2012 è affidata a Giorgio Tacchia, fondatore, Ceo e Presidente del Cda ed azionista di Chili. È stato precisato, poi, che Stefano Parisi, cofondatore nel 2012, è attualmente un azionista di minoranza, e che dal 2016 non ha ruoli operativi nella società e non fa parte del consiglio di amministrazione.

Stefano Parisi (il co-fondatore di Chili) il 17 dicembre “lascia la politica” (Comune di Milano e Regione Lazio) per tornare a fare l’imprenditore

Da segnalare comunque che curiosamente cinque giorni dopo le “precisazioni” di Chili, Stefano Parisi dichiara, il 17 dicembre, di voler “lasciare la politica” (si era schierato nel centro-destra, già candidato sconfitto a Sindaco di Milano), tornando a fare l’imprenditore (si legga qui il suo lungo post, dopo il quale – stranamente – non ha scritto più nulla su Facebook): si dimette quindi da Consigliere Comunale a Milano e Consigliere Regionale nel Lazio (parrebbe caso unico in Italia di due cariche politiche in regioni diverse).

Chili ha precisato anche che “i 10 milioni di euro approvati dal Parlamento” saranno trasferiti dal Mibact a Cdp per la realizzazione della “joint-venture” e non saranno versati in Chili. “Al contrario”, Chili contribuirà alla “j-v” investendo 9 milioni di euro, “includendo tecnologia, cassa e competenze del management”.

Questa precisazione è un po’ ambigua: lo Stato quindi interverrebbe complessivamente con 20 milioni di euro, di cui 9,6 apportati direttamente (autonomamente) da Cdp, più 10 che Mibact alloca comunque a favore di Cdp…

Si tratta comunque di budget assolutamente sottodimensionati, a fronte delle dichiarate ambizioni della ardita intrapresa.

Ricaduta mediatica della annunciata “newco”: prevalgono critiche e dubbi

Abbiamo già segnalato, su queste colonne, come le reazioni all’idea del Ministro siano state piuttosto critiche, soprattutto dopo il comunicato ufficiale di Cdp, da parte di giornalisti ed operatori del settore: tra i primi osservatori critici Marco Molendini, sul quotidiano “Il Dubbio” di mercoledì 2 dicembre, in un intervento intitolato “Perché il governo dimentica RaiPlay?; Giovanna Branca e Cristina Piccino scrivono su “il Manifesto” del 3 dicembre un articolo intitolato ironicamente “La ‘Netflix della cultura’ nel paese dei balocchi”; impietosa Giovanna Faggionato su “Domani” del 4 dicembre, intitolando “La Netflix di stato è un bluff che serve solo a Franceschini”; Tomaso Montanari, su “il Fatto Quotidiano” del 7 dicembre definisce la Netflix della cultura “il nuovo gioco della politica” e si interroga – anche lui – sul perché non sia stata coinvolta RaiPlay; Vincenzo Vita su “il Manifesto” del 9 dicembre dichiara in modo netto “questa piattaforma non s’ha da fare” ed anche lui si domanda perché non siano state coinvolte Rai ed Istituto Luce Cinecittà; anche Aldo Grasso, l’11 dicembre sul “Corriere della Sera”, si domanda se non sarebbe stato più naturale coinvolgere attivamente Rai; il 12 dicembre Michela Tamburrino su “La Stampa” riporta voci interne di Viale Mazzini che si domandano perché non è stato coinvolto il “braccio commerciale” di Viale Mazzini, ovvero la controllata Rai Com spa; il 17 dicembre, “Italia Oggi” titola un articolo di Carlo ValentiniIl Netflix della cultura del Ministro Dario Franceschini bocciato senza appello dagli operatori del settore”; sulle colonne de “La Verità” il 21 dicembre il consigliere di Viale Mazzini “in quota” centro-destra Giampaolo Rossi accusa il Ministero di aver considerato Rai “accessoria”, allorquando dovrebbe essere “elemento centrale” per chi vuole valorizzare la cultura italiana…

Il 27 ottobre, Luciano Capone e Carlo Stagnaro, sulle colonne de “il Foglio”, avevano sostenuto “Franceschini vuole fare la Netflix italiana, ma già esiste: si chiama Rai”.

Ulteriore colpo, un ipercritico articolo di una delle firme più prestigiose del settimanale “l’Espresso”, Carlo Tecce, domenica 3 gennaio 2021, che scrive “A chi serve davvero la Netflix all’italiana. Dalla piattaforma per la cultura, teatri, musei e orchestre non guadagnano. I soldi sono del Ministero e Cdp, la convenienza tutta di Chili”.

Secondo “l’Espresso”, Cdp avrebbe apportato 9,4 milioni di euro attraverso Cdp Equity, braccio finanziariario di Cdp, e 9 milioni verrebbero da Chili, ma in verità la società fondata da Stefano Parisi ne investirebbe realmente soltanto 3, perché 6 milioni riguarderebbero la struttura digitale che Chili offre per creare la piattaforma…

Ed il 23 ottobre 2020, Chili spa ha costituito una società “ad hoc”, controllata al 100 per cento, attraverso una operazione di “conferimento”, Chili Tech srl, che gestirà lo sviluppo e la manutenzione della piattaforma (Chili sarà il primo cliente di Chili Tech): 32 dipendenti degli 88 di Chili spa saranno assegnati a Chili Tech.

I dubbi restano molti, rafforzati da questi inediti intrecci societari tra “pubblico” e “privato”: c’è chi ipotizza che questo di Cdp sia un salvataggio pubblico di una impresa privata in profonda crisi, una “Alitalia” in miniatura insomma; c’è anche chi teme l’ingresso in scena di alcuni piccoli “boiardi della cultura”…

Il “business-plan” ipotizzerebbe che ItsArt possa andare in pareggio nell’arco di 5 anni, ma forse pecca di ottimismo.

Critiche dal Movimento 5 Stelle, da Fratelli d’Italia, dalla Lega, dalla Cgil…

Si ricordi anche che il 3 dicembre la Capo Gruppo in Commissione Cultura del Senato del Movimento 5 Stelle Bianca Laura Granato ha annunciato a Fanpage un’interrogazione parlamentare: “Chili società indebitata, il Mibact chiarisca. Chiediamo che ruolo avrà il Mibact, visto che ci mette 10 milioni e perché non sia stata coinvolta la Rai”. L’interrogazione è stata pubblicata il 9 dicembre, e non è giunta ancora risposta (Atto di Sindacato Ispettivo n. 3-02155).

Il 7 dicembre il Presidente della Commissione Vigilanza Alberto Barachini (Forza Italia) ha indirizzato una lettera a Franceschini, domandando “Perché il servizio pubblico è stato escluso?”. Non si ha notizia della risposta del Ministro, se è stata inviata o se è pervenuta.

Anche Michele Anzaldi, membro della Commissione di Vigilanza in quota Italia Viva, ha manifestato la sua contrarietà alla “newco”, riproponendo una idea già espressa in passato, ovvero di un bando aperto anche ai privati per progetti di questo tipo: “solo così la Rai potrebbe essere stimolata a partecipare e si eviterebbero gli sprechi che caratterizzano l’azienda” (Anzaldi cita i casi del “canale istituzionale” Rai e quello “internazionale” in lingua)…

Posizioni critiche sono state manifestate anche da parte della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, in un articolo pubblicato dall’agenzia stampa specializzata AgCult il 9 dicembre: “Rai sia protagonista, non sprecare le nostre potenzialità”. Meloni ricorda che il collega Federico Mollicone (Responsabile Cultura del Partito) ha ribadito il ruolo che può e deve avere Rai: “dare visibilità alle nostre eccellenze culturali è una priorità e abbiamo proposto fin dall’inizio che dovesse essere la Rai ad avere un ruolo da protagonista in questo progetto. Fratelli d’Italia ha formalizzato in una risoluzione presentata e approvata in Commissione Vigilanza Rai, con la quale abbiamo chiesto la costituzione di ‘RaiPlayPlus’, una piattaforma di contenuti capace di competere con i giganti del settore e in grado di sfruttare le grandi potenzialità del servizio pubblico: l’ottima funzionalità di RaiPlay, la straordinaria ricchezza dell’archivio Rai in termini di contenuti e materiale e la garanzia del servizio pubblico di poter dare la giusta visibilità a tutte le diverse forme artistiche…”.  Qualche settimana prima, ad inizio ottobre, la Responsabile Cultura della Lega, la ex Sottosegretaria al Mibact Lucia Borgonzoni (ai tempi del Conte 1°, con Alberto Bonisoli titolare del Mibact) aveva addirittura dichiarato: “Netflix della cultura: idea che mi terrorizza, ci vogliono togliere le emozioni”.

Il 10 dicembre ha preso posizione critica anche la Cgil, nelle persone di Manuela Bizi e Riccardo Saccone, Segretari nazionali Slc Cgil (Sindacato Lavoratori della Comunicazione). Cinzia Maiolini e Sandro Del Fattore, sulla piattaforma comunicativa della Cgil “Collettiva”, il 14 dicembre chiedono – anche loro – il coinvolgimento di Rai, e giustamente ricordano: “allargando lo sguardo all’orizzonte europeo poi, dimensione minima per un ragionamento di rilancio complessivo del settore culturale, si scopre che esiste già una realtà che si sta affermando con forza anche in Italia: Arte.Tv, l’emittente pubblica franco-tedesca che ha circa 30 anni e che trasmette gratuitamente in 6 lingue, italiano compreso. Arte lavora a stretto contatto con la Rai e collabora, tra gli altri, con il Teatro La Scala… Infine, per dare una dimensione di quale investimento sia necessario per avere piattaforme efficaci di produzione e diffusione di contenuti, è bene sapere che il budget di Arte.Tv nel 2019 è stato di 137 milioni di euro e quello di Netflix del 2020, 173 miliardi di dollari…”. Come s’usa dire: insomma, “size does matter”.

Alcuni osservatori malevoli sostengono che il “dominus” di Cdp Fabrizio Palermo (classe 1971, alla guida del gruppo sia in veste di Ad che di Dg) si sarebbe lasciato convincere dal Ministro Franceschini anche perché il suo mandato è in scadenza in primavera (secondo alcuni osservatori, il premier Giuseppe Conte vorrebbe nominare Domenico Arcuri come successore), e, in fondo, una decina di milioni di euro sono veramente bruscolini, a fronte della massa di miliardi di euro che muove Cdp… Si ricordi che in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio 2019, il Gruppo Cdp dichiarava “mobilitate risorse per 34,6 miliardi di euro a supporto dell’economia del Paese… Utile netto consolidato a 3,4 miliardi di euro”… Ciò basti.

Grandeur di Franceschini, tra “Netflix italiana della cultura” e Cinecittà “Hollywood europea?!

Si ricordi anche, a conferma dell’asse Mibac-Cdp, che Dario Franceschini, in un’intervista del 19 novembre a “Il Sole 24 Ore”, curata da Andrea Biondi, ha dichiarato “l’ipotesi su cui stiamo lavorando è che il gruppo Cdp entri in Cinecittà. Questo consentirà di conferire a Cinecittà un’area grande come quella attualmente occupata dagli studios. Un’area di proprietà di Cdp, che confina con Cinecittà e che consentirebbe di raddoppiarne gli spazi e allo stesso tempo di far entrare un partner industriale, ovvero Cdp o le sue società. Stiamo costruendo le condizioni per un salto di qualità assoluto: una grande operazione industriale per l’Italia e per Roma. Non è fuori luogo parlare di Hollywood europea”. Se il Ministro fosse francese, gli attribuiremmo ironicamente la classica vocazione tipica della “grandeur”: un guizzo napoleonico, tra “Netflix italiana della cultura” e Cinecittà “Hollywood europea”?!

Ben venga, comunque, l’annunciato… “salto di qualità”!

Il rapporto tra Cdp e Chili è quindi tra un gigante ed un topolino: potremmo stimare circa 1.000 (Cdp) ad 1 (Chili)… Si ricordi che Cdp controlla il 26 % di Eni, il 35 % di Poste Italiane, il 10 % di Tim, il 30 % di Terna e di Snam, il 26 % di Italgas, il 19 % di Salini Impregilo, il 72 % di Fincantieri, il 13 % di Saipem… Ascoltare l’eco dell’Iri (immarcescibile?!) è inevitabile. Senza dimenticare il ruolo di Cdp nella mitica “rete unica nazionale”…

Il matrimonio tra Cdp e Chili corre il rischio di far crescere una “bizzarra creatura”, destinata ad un “sonoro fiasco”, ha scritto Simone Cosimi il 4 dicembre su “Wired”.

Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili, Chili spa ha registrato un valore della produzione di 42,7 milioni di euro nel 2019 ed aveva 88 addetti al 30 settembre 2020. Nel 2018, il valore della produzione è stato di 30,3 milioni, a fronte di 14,8 milioni del 2017. Il fatturato cresce, ma colpiscono le perdite: 7,8 milioni nel 2017, raddoppiati nel 2018 a quota 19,2 milioni, e cresciuti a 19,5 milioni nel 2019. La società registra perdite consecutivamente da 8 anni, e la somma delle perdite degli ultimi 3 esercizi arriva a quasi 47 milioni di euro.

Il “salotto buono” dei soci di Chili Tv

L’azionariato di Chili spa, all’8 gennaio 2021, risulta così ripartito: 2,6 milioni di azioni Capsicum spa (fondo lussemburghese emanazione di Negentropy); 1,3 milioni di azioni Torino 1895 Investimenti della Famiglia Lavazza (si tratta del primo investimento del gruppo fuori dal “core business” storico); 1,2 milioni Negentropy Special Situations Fund; Ferruccio Ferrara (ex Morgan Stanley, attuale Presidente di Chili spa e “dominus” di Negentropy) 920mila; Antares Private Equity Fund (Stefano Romiti) 553mila; Investinchili spa 342mila (questa spa raggruppa alcuni investitori privati assai noti – una sorta di “salotto buono” – tra i quali ci sono Antonio Belloni, Direttore Generale di Lvmh nonché braccio destro del “patron” Bernard Arnault; Francesco Trapani, socio in Tages Holding, ex Presidente di Clessidra sgr e per trent’anni al timone del marchio Bulgari;  la famiglia del Ceo di Illimity, Corrado Passera; e la famiglia Chiarva, ex proprietaria di Stella-Jones Inc…); Brace srl 221mila (di Stefano Parisi)… Seguono piccoli azionisti, come Twentieth Century Fox (38mila), Warner Bros (38mila), Paramount (25mila), Culver (23mila), Viacom (13mila), Sony Pictures Entertainment (4mila) ed alcune persone fisiche come il Presidente Giorgio Tacchia (5mila), il consigliere Giano Biagini (2mila) ed Miranz Antoine Siamak (8mila)…

Chili spa può insomma vantare vari investitori appartenenti ad un “salotto buono” del capitalismo, ma il “business model” resta incerto, e – secondo alcuni analisti – il rischio di un flop è concreto, se non si identifica una “killer application”: la criticità principale – secondo chi redige queste note – è data dal deficit dimensionale, inadeguato anche soltanto per una campagna pubblicitaria che renda nota la società al grande pubblico, e dall’assenza di un coinvolgimento attivo dei principali “player” del settore delle industrie culturali e creative.

Da segnalare anche che ItsArt non entrerebbe ovviamente in produzione (anche perché non avrebbe le risorse necessarie), ma si limiterebbe a distribuire e commercializzare opere prodotte da altri soggetti (la produzione non è peraltro nemmeno prevista statutariamente). Va però ricordato che il già citato articolo 183 comma 10 della legge n. 77 del 17 luglio 2020 (“Decreto Ristori”), che ha creato la “piattaforma”, prevede che “possono essere stabiliti condizioni o incentivi per assicurare che gli operatori beneficiari dei relativi finanziamenti pubblici forniscano o producano contenuti per la piattaforma medesima”.

Il Ministero potrebbe quindi destinare risorse del Fondo Unico dello Spettacolo (Fus) e del Fondo Cinema e Audiovisivo (creato con la “legge Franceschini” del 2016) per alimentare “indirettamente” la piattaforma? Sulla carta sì, ma ci sembra operazione assai complessa: con quali criteri selettivi e soprattutto con quale strategia?!

Salvo Nastasi (Mibact) chiede a Fabrizio Palermo (Cdp) di far ri-entrare Rai in gioco?!

Tecce segnala che il Segretario Generale del Ministero Salvo Nastasi (co-regista dell’operazione con il Ministro assieme al Capo di Gabinetto Lorenzo Casini) avrebbe chiesto al Presidente di Cdp Fabrizio Palermo di ri-tentare un significativo coinvolgimento attivo di Rai: non resta che augurarsi che questa iniziativa vada in porto, nonostante l’attuale incertezza estrema che caratterizza Viale Mazzini, con un Amministratore Delegato, Fabrizio Salini, ormai debolissimo.

E peraltro su questa vicenda, Rai non ha assunto – incredibilmente – una posizione ufficiale, nemmeno con un comunicato stampa, anche se due consiglieri di amministrazione – Riccardo Laganà (eletto dai dipendenti Rai) e Rita Borioni (“in quota” Pd) – il 14 dicembre hanno chiesto, con una lettera a firma congiunta indirizzata al Presidente Marcello Foa (peraltro a suo tempo teorico di una imprecisata “Raiflix”…) ed all’Ad Fabrizio Salini, chiarimenti su quel che è avvenuto tra Cdp/Mibact e Viale Mazzini, ma non si ha notizia ufficiale dell’esito della loro istanza.

Parrebbe che Salini abbia spiegato, in occasione del Cda del 16 dicembre, che ci sono state interlocuzioni con Cdp, che Rai abbia ascoltato il parere delle direzioni interne interessate (Rai Cultura, Rai Digital, Cto, stranamente non la controllata RaiCom), ma che non ci siano stati i “tempi tecnici” per partecipare alla “gara” (?!). Si sarebbe comunque deciso di valutare assieme (Cdp e Rai) una futura possibile convergenza collaborativa post-costituzione della “start-up”.

Anche gli esperti manifestano per lo più diffuso scetticismo: abbiamo già segnalato la prima accurata analisi di Michele Casula (fondatore di Ego Research) il 30 novembre 2020 sul sito specializzato “Cineguru”, ma meritano essere letti anche Giacomo Giubilini (consulente Rai per il cinema e sceneggiatore) sul sito dell’Anec Lazio (associazione di esercenti cinematografici) con l’intervento critico del 10 dicembre, ed il 2 gennaio 2021 l’approfondimento di Claudio Calveri (che si autodefinisce “Digital strategist, Crowdfunding Consultant, Business Mentor, Cultural Manager”) proponendo una utile traccia di analisi strategica della “Netflix della cultura” sulle colonne dell’agenzia stampa specializzata AgCult; stimolante anche l’intervento culturologico-estetologico del 10 dicembre 2020 di Laura Lombardi sul blog “Antinomie. Scritture e immagini”.

E facciamo nostre le domande del già citato Aldo Grasso: “non era meglio, inventando magari una nuova struttura, potenziare il patrimonio delle Teche (Rai, Luce, Cineteca di Bologna…), di Rai Cultura, di Rai5, al limite creare un consorzio anche con Sky Arte per un’offerta davvero significativa?”. Grasso chiude il suo articolo dell’11 dicembre con: “auguri, speriamo di cuore che la piattaforma nata per ‘sostenere il settore delle performing arts’ funzioni. Tanto, nel caso fallisca, tutto passerà nel dimenticatoio”. Speriamo che così non sia.

Da rimarcare anche che tutto il progetto di piattaforma della cultura è stato ideato “in house” dal Mibact, assegnato a Cdp (che pure non può vantare alcuna esperienza nel business mediale), senza coinvolgimento dei “player” del settore delle industrie culturali e creative, né a livello imprenditoriale (Agis, Anica, Apa, Confindustria Radio Tv, eccetera), né a livello autoriale (Anac, 100autori, Wgi, Siae ecc.), né sindacale (non casuali le critiche di Cgil), né a livello di operatori del sistema museale e dei beni culturali (CoopCulture, CulTurMedia, Federculture, Civita, Electa, ecc.): perché questa “autocrazia” ministeriale, questo asse esclusivo Mibact-Cdp, allorquando l’occasione sarebbe perfetta per una riflessione strategica sul ruolo dello Stato nel settore culturale alla luce del nuovo paradigma digitale?!

Conclusivamente: l’idea in sé è bella, anzi affascinante, ma le risorse messe in campo sono assolutamente inadeguate; lo scenario di mercato permane incerto, le variabili in gioco assai aleatorie; il non coinvolgimento della Rai nella intrapresa appare operazione autolesionista.

Auguriamoci che una rapida correzione di rotta venga presto assunta, e che Rai venga coinvolta in modo determinante, onde evitare che ci si scontri presto con una novella versione della tipicamente italica dinamica delle “nozze coi fichi secchi”, tante volte – ahinoi – richiamata su queste colonne.

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