Hai bisogno di fare la spesa? Basta utilizzare l’app sul tuo smartphone. Devi andare dal dottore? Basta chiedere un video consulto. Hai bisogno di medicine? Basta un messaggio su whatsapp. Necessiti di nuovi vestiti? Ci sono numerose piattaforme di ecommerce a tua disposizione.
Ecco, in maniera molto sintetica, che cos’è quella che Lauren Smiley su medim.com ha definito “shut-in economy”, cioè l’economia legata all’isolamento obbligatorio per via della pandemia mondiale di coronavirus, ma non solo.
A pensarci bene è qualcosa che parte da lontano, da quando questi servizi e queste piattaforme sono entrati nelle nostre vite, assieme a smartphone e tablet. Il poter comprare qualsiasi cosa, in qualunque modo, posto e momento, ha reso psicologicamente superfluo immaginare ogni nostro spostamento casa-negozio, per non parlare dei posti più affollati come i centri commerciali e gli outlet.
Lockdown, quale economia
Oggi, la tragica situazione che stiamo vivendo non solo in Italia, ma in tutta Europa e gran parte del mondo, rende la quarantena il nuovo scenario con cui si devono misurare i mercati, le industrie e le imprese. In un’economia del lockdown, dove i danni materiali del virus sono al momento ancora difficili da valutare, è inevitabile che tutto diventi on-demand.
Cosa che significa, immediatamente, ricoprire di ancora più rilevanza economica, culturale e politica giganti del settore come Amazon, ma anche esporre la nostra privacy ad ulteriori rischi di limitazione e violazione dei dati personali, loro sottrazione e possibilità di vendita (magari nella darknet).
Già nel 1998, gli studiosi della Carnegie Mellon, ammonivano tutti noi sulle potenziali conseguenze inattese dell’esplosione della rete: “un grande strumento sociale, con importanti ricadute antisociali”. Ancora oggi ci interroghiamo sul senso di quelle parole, ma, nel frattempo, il virus ci ha isolati in celle di un gigantesco alveare, in attesa (o nella speranza) che qualcuno ci liberi dall’incubo: “E’ finita, potete uscire”.
Le pubblicità in televisione, sul web e in radio, d’altronde, già battono molto sul tasto della “shut-in economy”, invitandoci a compare rigorosamente on demand pizza, bibite, alcolici, prodotti di qualsiasi tipo. Il cinema non è esente dalle regole rigide del distanziamento sociale (“social distancing”), come anche il teatro e le librerie.
Online abbiamo tutto il mondo a nostra disposizione, ma senza il bisogno di uscire di casa e di incontrarci.
La pandemia ci ha portato nelle nostre abitazioni, in questi giorni, ancora più film e serie tv (da Netflix ad Amazon, da Google a Disney, solo per citare le piattaforme più utilizzate da tutti noi), programmi televisivi di varia natura, interi set da palestra, cibo in grandi quantità, vestiti, medicine, mentre per scambiare due parole con amici e parenti (se non vivono con noi fin dall’inizio) c’è whatsapp, facebook e tutti gli altri social. Insomma, forse non ce ne siamo accorti, ma stiamo vivendo completamente online.
Abituarsi al cambiamento
Il concetto è ripreso anche dalla rivista del MIT di Boston, technologyreview.com, dove in un articolo di Gideon Lichfield si cerca di spiegare in che modo questa pandemia di covid-19 potrebbe cambiare radicalmente e drasticamente il nostro stile di vita, le nostre abitudini e persino il nostro modo di relazionarci con amici e parenti.
Due sono le priorità per le Istituzioni in questo momento: fermare i contagi e i decessi; cercare di isolare i cittadini con norme stringenti di quarantena e distanziamento sociale. E l’economia? Per questo altrettanto fondamentale settore, da una parte ci sono gli impianti strategici, che non possono chiudere (energia/acqua, alimentari, agricoltura-zootecnia, farmaceutica, solo per ricordarne alcune), dall’altra c’è internet e l’economia delle app e dei servizi “on demand”.
Nel tentativo di tenere a bada i contagi, quindi di provare ad abbassare la curva della pandemia, i Governi impongono il lockdown. Il problema è che i tempi non sono certi. Siamo passati da un paio di settimane a un mese, forse più di un mese, anche in considerazione del fatto che un eventuale vaccino non arriverà prima di un anno e mezzo, forse due (se tutto andrà bene).
Alcuni scienziati ipotizzano che saremo costretti a vivere in costante isolamento, alternato a qualche settimana di vita quasi “normale” (“quarantena yo-yo”). Altri ipotizzano, nella migliore delle ipotesi, avremo cinema e teatri con pochissimi posti (ammesso che saranno economicamente sostenibili), palestre e negozi a numero chiuso, con percorsi obbligati e distanziometri.
Libertà individuali e diritti
Ogni nostro movimento online e offline sarà tracciato, soprattutto se usciremo di casa, quando sarà possibile. Il contagio cammina con gli esseri umani, quindi, per sapere come si comporta il virus, sarà necessario seguirti in ogni momento e sapere che fai.
Chi pagherà di più per tutto questo? “As usual, however, the true cost will be borne by the poorest and weakest”, i poveri e i più deboli, come sempre accade. Il rischio maggiore è un più forte e diffuso sfruttamento dei lavoratori precari della gig-economy e una maggiore marginalizzazione di immigrati, senzatetto, rifugiati, disoccupati, che essendo tali non avranno un domicilio dove rinchiudersi, ne amici da cui stare, ne soldi a sufficienza per pagarsi un affitto.
Curarsi sarà costoso, almeno che gli Stati non interverranno con regole chiare e risorse pubbliche: se sei ad alto rischio contagio, perché abiti in zone periferiche e malsane, o perché semplicemente sei povero, difficilmente troverai chi vorrà curarti, perché non potrai permetterti un’assicurazione.
E poi le libertà individuali, altra grande vittima della pandemia e delle misure restrittive dei Governi. Dobbiamo tutti fare dei sacrifici, ci dicono, ma fino a che punto? Che senso dare al vivere rinchiusi a tempo indeterminato a casa? Siamo davvero pronti a questo? E in nome di che esattamente? Giustamente, gli scienziati ci hanno detto più volte che non si muore di covid-19, ma con il covid-19 (la stragrande maggioranza delle vittime è affetta da altre patologie, più o meno nascoste).
Forse, se negli ultimi 20 anni non avessimo tagliato in maniera dissennata i fondi al nostro sistema sanitario, oggi avremo molte migliaia di posti letto in più, molti posti letto per le terapie intensive, dispositivi per le terapie e la sicurezza di medici, infermieri e personale vario (forze dell’ordine, vigili del fuoco, protezione civile, polizia municipale, operatori ecologici). Forse non ci troveremmo in questa situazione, al momento senza via di uscita.