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Sharing economy, varrà 235 miliardi di dollari nel 2025

Il 2015 è stato l’anno dell’esplosione della sharing economy, trainata da nuovi player come Uber o Airbnb che hanno creato non pochi problemi, anche in Italia, rivoluzionando i tradizionali modelli sociali e di consumo.

I servizi offerti da Uber o Lyft minacciano il lavoro dei tassisti, quelli di Airbnb l’industria alberghiera… ma ci sono anche tante altre startup che forniscono app basate su internet e tecnologie mobili che permettono lauti guadagni fuori dai circuiti tradizionali di lavoro.

Come? Cucinando pasti al vostro posto (Bon Appetour), fornendo riparazioni a domicilio (Thumbtack), o ancora per sbrigare piccole commissioni (Task Rabbit), lavare la biancheria (Washio) o anche la consegna della spesa (Instacart, Postmates, Grubhub…).

E’ il boom della sharing economy che, secondo PriceWaterhouseCooper (PwC), varrà 235 miliardi di dollari su scala globale entro il 2025.

Nel 2014 il valore era di 15 miliardi.

Uber è già diffuso in oltre 60 Paesi con un valore stimato di 50 miliardi di dollari. Airbnb, che opera in 190 Stati, è stimata in 25 miliardi.

Un’arma a doppio taglio?

Queste piattaforme, osservano gli analisti di PwC, hanno il potenziale di “cambiare radicalmente sia il modo in cui consumiamo alcune cose che come lavoriamo per poterle fare”.

I difensori di queste piattaforme ne apprezzano la più ampia scelta per i consumatori come anche la possibilità di guadagnare soldi con poche risorse, impiegando la propria auto, il proprio appartamento o il proprio tempo libero.

C’è però il rovescio della medaglia. I detrattori evidenziano anche le perdite per le industrie tradizionali che hanno investito molti soldi, la concorrenza sleale e la mancanza di tutela per il lavoro, sempre più flessibile.

Senza poi contare i rischi di imbattersi in gente inaffidabile. Sul sito AirbnbHell (servizio di alloggio in case o appartamenti per le vacanze) un utente racconta di essere stato derubato e di aver trovato a rientro la porta di casa sbarrata.

Il professore dell’università di New York, Arun Sundararajan, osserva che questi servizi producono come inevitabile conseguenza un abbassamento delle retribuzioni: se il lavoro necessita di una presenza fisica gli stipendi sono più alti mentre sono molto più bassi quando la prestazione avviene da remoto.

Per Sundararajan, la sharing economy è vantaggiosa per chi lotta per sbarcare il lunario o vive sotto la soglia media di reddito.

Da un alto ci sono quindi i ‘ricchi’, che offrono questo servizio perché possono permetterselo, e dall’altro la gente che ricorre a queste piattaforme proprio perché ha bisogno di risparmiare.

Il rischio è però sempre sul lato del lavoro: queste nuove tendenze eliminano alcune garanzie fondamentali come quella del salario minimo, della sicurezza, dei congedi parentali, della malattia, degli straordinari… insomma tutte quelle assicurazioni a carico del datore di lavoro.

Serve una regolamentazione

I nuovi servizi della sharing economy sfuggono alle regole che invece si impongono ai tassisti, agli albergatori o ad altri fornitori.

Ma chi li difende a spada tratta, è convinto che si tratti di un settore che si auto-regola: “Basta leggere le recensioni sui servizi resi per capire che i consumatori vengono tutelati”.

Può bastare?

Secondo molti no.

Il presidente della Federal Trade Commission (FTC), Edith Ramirez, ritiene che siano necessario intervenire con nuove regole.

Sundararajan però è del parere che non bisogna andar di fretta per regolamentare un settore che si evolve alla velocità della luce: “Potrebbe essere solo una tappa di un progresso che dura da 30 anni e che riguarda il come le tecnologie digitali stanno cambiando l’organizzazione del lavoro”.

Non è quindi sicuro, secondo il professore dell’università di New York, che ci troviamo di fronte ai nuovi modelli di lavoro che domineranno il XXI secolo.

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