A dicembre 2024, per la prima volta al mondo, una Corte Costituzionale ha annullato i risultati di una elezione (nel caso specifico il primo turno delle presidenziali rumene) sul presupposto che risultassero falsati da illecite ingerenze di paesi esteri tramite campagne di disinformazione veicolate massivamente attraverso i social media (in primis TikToK).
Il 7 gennaio 2025 Facebook e Whatsapp hanno formalizzato, per bocca del CEO Zuckerberg, la volontà di allentare le misure di contenimento e moderazione del free speech, intendimento che in UE deve naturalmente fare i conti con le limitazioni (e le misure di contrasto) previste dal framework legislativo e anche dal Codice di condotta europeo contro la disinformazione, firmato nel 2022 dagli stessi soggetti che ora prefigurano il passo indietro.
Si tratta di due circostanze che possono essere lette in stretta connessione, in quanto segnalano e fotografano, da una diversa angolazione geografica e con opposte finalità, un medesimo fenomeno.
La prima circostanza sancisce ufficialmente, con il timbro di una Corte Costituzionale, che la disinformazione online è un fenomeno col quale le moderne democrazie devono ormai fare i conti e che l’integrità, la correttezza e l’attendibilità delle consultazioni elettorali, anche in paesi a più alto tasso di democrazia, possono facilmente essere minate per mezzo di campagne di disinformazione orchestrate attraverso la rete internet, ed in particolare attraverso i social network.
La seconda circostanza racconta che le policy di moderazione del c.d. free speech dei maggiori social network del pianeta saranno rese molto più blande, sul modello già chiaramente adottato da altri social, in primis “X” di Elon Musk. E che le piattaforme digitali globali puntano sempre più all’autoreferenzialità e all’autosufficienza, cercando di limitare al massimo l’intrusività degli ordinamenti statuali: scrivono da sè le regole, le rendono esecutive, e predispongono (alla bisogna) strumenti di autodisciplina e composizione dei conflitti.
La strumentazione regolamentare UE faticosamente costruita in questi ultimi anni, nel solco della Comunicazione della Commissione del dicembre 2020 denominata Piano d’azione per la democrazia europea – di cui costituiscono snodi ineludibili il Regolamento europeo sui servizi digitali (Digital Services Act), pienamente applicabile dal 17 febbraio 2024; il Regolamento europeo sulla libertà dei media (Media Freedom Act), in vigore dal 7 maggio 2024; il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (AI Act), in vigore dall’1 agosto 2024 e il Regolamento europeo relativo alla trasparenza e al targeting della pubblicità politica, la cui piena entrata a regime è prevista per il novembre 2025 – compongono un corpus di regole robuste e qualificate che pongono l’Europa, indiscutibilmente, un passo avanti rispetto a ogni altro ordinamento vigente.
Nondimeno – per limiti intrinseci a qualsiasi regolamentazione, che tipicamente fotografa un fenomeno senza la possibilità di adeguarsi in tempo reale al suo evolversi, e per limiti specifici e insuperabili connessi con la straordinaria mutevolezza degli scenari tecnologici e di mercato nella specifica materia oggetto di intervento – questo corpo di regole, da solo, non basterà ad arginare i fenomeni che intende regolamentare e orientare.
Un corredo essenziale di queste regole sarà costituito dalla capacità dei singoli paesi UE di promuovere policy efficaci di alfabetizzazione digitale; di integrare i programmi scolastici con insegnamenti in grado di assicurare a tutti i cittadini UE una piena cittadinanza digitale; di elevare il grado di maturità e di consapevolezza di quell’ampia fascia di popolazione attualmente esclusa dai consumi culturali.
La questione interpella fortemente il nostro paese. Secondo l’ISTAT, come ricordo da tempo, un buon terzo di cittadini italiani resta al grado zero dei consumi culturali (libri, giornali, cinema, teatro, musica, arte). E l’ultimo indice DESI (Digital Economy and Society Index) della Commissione europea ci conferma nelle retrovie quanto a “digital skill”, certificando che una buona metà dei fruitori di internet nel nostro paese non dispone di un livello di conoscenza più che “basic” per orientarsi nel mondo digitale.
Il combinato disposto di questi due fattori, ossia una cultura di base poco più che elementare, e una insufficiente capacità di abitare in piena consapevolezza la città digitale, rende milioni di nostri concittadini preda e vittima privilegiata di ogni campagna di disinformazione. E non basteranno regole, pur ben scritte, a salvarci dagli effetti di questo fenomeno. Non saranno sufficienti quei Regolamenti a sottrarre al sonnambulismo civile quel terzo di popolazione italiana che vive fuori dai circuiti del sapere e della cittadinanza digitale.
Se non si investe in scuola, cultura, formazione, sapere, il rischio è che altre Corti Costituzionali arrivino presto ad annullare altre consultazioni elettorali, e che in un orizzonte temporale non troppo lontano ci si debba chiedere se il ricorso alle urne, il suffragio universale diretto, il consenso, siano ancora e per sempre il mezzo su cui poggiare con fiducia i fondamenti di uno stato di diritto.