Nei giorni scorsi ci eravamo illusi che, almeno dal punto di vista della qualità dell’aria che respiriamo, la quarantena indotta dall’epidemia di coronavirus avesse potuto darci una mano nel ridurre i livelli generali di inquinamento.
Alcuni dati preliminari avevano avvalorato tale ipotesi. Lo stesso Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha pubblicato i risultati di un nuovo studio, condotto da un team di esperti del Sistema nazionale di protezione ambientale (Snpa), che sostanzialmente conferma il miglioramento della qualità dell’aria nei centri urbani di tutto il Paese, del Nord specialmente e anche d’Europa.
La piattaforma Snpa è stata sviluppata in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e ha permesso di effettuare una prima analisi dei cambiamenti avvenuti nella qualità dell’aria, a seguito delle restrizioni di mobilità adottate in Lombardia e Veneto a partire dal 23 febbraio e poi estese a tutto il territorio nazionale a partire dall’11 marzo.
Inquinamento da traffico
Grazie allo stop totale del traffico deciso dal Governo, quindi di automobili private, aziendali e di veicoli di ogni grandezza (tranne per le imprese considerate fondamentali per la tenuta sociale ed economica del Paese), si è subito osservata una drastica riduzione delle emissioni di biossido di azoto (NO2).
L’NO2 è frutto dei processi di combustione relativi al traffico delle automobili ed inoltre reagisce molto rapidamente ad ogni variazione delle emissioni. Appena abbiamo abbandonato le nostre auto, il suo valore è crollato.
Secondo quanto riportato da Legambiente: “Si stima una diminuzione dell’ordine del 50% della concentrazione di NO2 nella Pianura Padana”.
I dati sono stati forniti dal Programma europeo Copernicus (il sistema di osservazione della Terra attraverso satelliti e analisi in situ) e da sistemi modellistici a scala nazionale e regionale, assieme a quelli raccolti sul territorio dalle Agenzie per la protezione dell’ambiente delle regioni e delle province autonome (Arpa e Appa).
Riscaldamenti e PM10
Discorso diverso per le polveri sottili PM10 e PM2.5.
Questi inquinanti sono molto più resistenti alle variazioni improvvise e soprattutto sono strettamente legati sia alle fonti che li originano, sia alle condizioni atmosferiche generali.
Dopo una prima timida riduzione registrata ad inizio marzo, soprattutto nelle città del Centro Nord, i dati sulle emissioni di particolato hanno subito una nuova impennata.
Il problema è da ricondurre sia all’effetto dell’alta pressione atmosferica, che governando il nostro meteo per settimane e settimane (praticamente quasi ininterrottamente da gennaio 2020 ad oggi) ha consentito all’aria nei bassi strati di ristagnare, favorendo l’accumulo di inquinanti, sia all’utilizzo diffuso dei riscaldamenti domestici.
La fonte principale di PM10 è da rintracciare negli impianti di riscaldamento che abbiamo in casa, che sono all’origine del 55-60% delle PM10 emesso che inquina pesantemente l’aria che respiriamo. Il 23% è riconducibile al traffico di automobili e altri veicoli, mentre un 6% è originato dalle attività agricole.
In crescita anche le emissioni di PM10 legate ai riscaldamenti alimentati da biomasse legnose, come caminetti e stufe alimentate a pellets.
Stando ai dati di Arpa Lombardia, venerdì 20 marzo, il PM10 registrato risultava su valori sino a 53 µg/m³ a Milano, 60 µg/m³ a Vigevano, 61 µg/m³ a Crema, 56 µg/m³ a Lodi, mentre il PM2.5 toccava i 41 µg/m³ a Milano, 34 µg/m³ a Bergamo, 42 µg/m³ a Brescia, tutti oltre il limite consentito.
Il tempo più freddo e piovoso di questa settimana e tendenzialmente anche della prossima, potrebbe aggravare ulteriormente questo quadro.
Decarbonizzare le nostre case
Il 75 % degli impianti di riscaldamento (e raffreddamento) è ancora alimentato da combustibili fossili, mentre solo il 19 % da fonti energetiche rinnovabili e, al momento, tali impianti relativi ad edifici (pubblici e privati) e a industrie rappresentano la metà del consumo energetico dell’Unione europea («Mapping and Analysis of the Current and Future (2020-2030) heating/cooling fuel deployment (fossils/renewables)»).
Per favorire il processo di decarbonizzazione degli edifici entro il 2050, che dovrebbero abbattere a zero le emissioni nell’atmosfera di CO2 da combustibili derivanti dalla costruzione o dai riscaldamenti delle abitazioni, un consorzio di otto Paesi dell’Unione ha sviluppato un nuovo sistema di riscaldamento e raffreddamento a energia solare e geotermica e lo ha collaudato in tre diversi climi: in quello caldo di Cipro e della Spagna come pure nel clima più freddo dell’Austria.
Si tratta del progetto “TESSe2b”, coordinato dal Politecnico di Setúbal in Portogallo, che ha dimostrato di poter ridurre il consumo energetico domestico dell’80-90 % rispetto ai sistemi convenzionali attualmente utilizzati.
Per ridurre sensibilmente i consumi e le emissioni inquinanti, nonché i costi ambientali, umani ed economici, il progetto propone un utilizzo maggiore delle fonti rinnovabili, nuovi sistemi di stoccaggio delle risorse energetiche, nuovi materiali più efficienti, sicuri e sostenibili.
Un ruolo centrale, infine, è svolto da un innovativo algoritmo di autoapprendimento, che può essere impostato su diversi obiettivi: risparmiare il consumo energetico netto; ridurre al minimo i costi operativi; massimizzare i livelli di comfort oppure realizzare un compromesso tra questi obiettivi.