Qualcosa si sta muovendo realmente, rispetto ad una “riforma” della Rai, auspicata… da sempre?!
E qual è la vera ragione di questa inattesa effervescenza, soprattutto da parte del Partito Democratico, che invoca un nuovo corso?!
Una lettura maligna vedrebbe nel Partito Democratico semplicemente la volontà di licenziare Fabrizio Salini, l’Amministratore Delegato che “governa” Viale Mazzini dal luglio 2018, nomina che fu maturata nell’economia dell’anomala alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega Salvini, alleanza che nel settembre del 2019 fu ribaltata dall’inattesa alleanza tra M5S e Partito Democratico. Di fatto, l’attuale “governo” della Rai è stato nominato dal governo precedente (sebbene pur sempre guidato Giuseppe Conte). La televisione pubblica – come ha scritto Giulia Merlo su “Domani” del 14 novembre 2020 – “per la prima volta, è in condizione di non rispondere al potere politico, ma non è riuscita ad approfittarne”.
Il “governo politico” della Rai non ha soddisfatto nessuno o quasi, anche se il Movimento 5 Stelle continua in qualche modo a difendere l’Ad Salini.
Il Partito Democratico “mette in mora” l’Ad Fabrizio Salini
Gli “altolà” sono stati manifestati, in ambito Pd, dapprima dal Segretario Nicola Zingaretti (insofferente già a fine ottobre, e poi l’11 novembre, con una dichiarazione netta: “per la Rai serve un amministratore delegato esterno, un nome di alto profilo”), e poi dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri, l’11 novembre, in audizione in Commissione Vigilanza. Il Ministro ha comunque sostenuto che l’attuale Cda andrà a naturale scadenza (giugno/luglio 2021), e, nel mentre, la “politica” sembra essersi risvegliata, dopo anni di sonnolenza rispetto alle sempre auspicate “riforme”.
I malevoli potrebbero pensare che la annunciata “riforma” sia semplicemente un alibi per avviare un ulteriore “mercato politico” per il Cda che verrà (già circolano nomi di possibili nuovi Ad, da Marco Patuano, Presidente di A2A, alla direttrice del mensile “Prima Comunicazione”, Alessandra Ravetta) e, nel mentre, per le nomine di dirigenti apicali di Viale Mazzini.
In questo contesto nebbioso, si è posta come sasso nello stagno l’iniziativa promossa dalla Cgil–Slc, che venerdì scorso 20 novembre ha organizzato un convegno intitolato “Rai / Bene pubblico per il Paese che cambia” (ne abbiamo riferito in abbondanza su queste colonne: vedi “Key4biz” del 20 novembre 2020, “Rai, la Cgil apre il laboratorio per la riforma del servizio pubblico”): iniziativa che ha offerto alla ex Ministro e Capo Gruppo del Pd in Commissione Vigilanza Rai Valeria Fedeli l’occasione per enfatizzare la volontà del Partito Democratico nell’addivenire presto ad una concreta riforma dell’emittente radiotelevisiva pubblica.
Che qualcosa si stesse muovendo, in ambito Pd, e da tempo, è evidente, dato che il 24 settembre 2020 il Sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella, in audizione in Commissione Cultura aveva sostenuto che è “arrivato il momento per affrontare seriamente il tema della riforma Rai, della sua governance e del miglioramento della sua missione di servizio pubblico”, fatto salvo poi precisare che si trattava di una opinione… personale (!), e dato che formalmente il 15 ottobre il Vice Segretario del partito il deputato Andrea Orlando ha presentato una proposta di legge alla Camera e formalmente il 6 novembre la senatrice Valeria Fedeli una proposta in Senato. Il testo della prima proposta è stato però reso pubblico soltanto giovedì 12 novembre (da segnalare che il giorno prima Andrea Orlando aveva tweettato “grave che prima dell’audizione del ministro Gualtieri sulle prospettive della Rai, il cda proceda ad una nuova infornata di nomine alcune anche di rilevanza strategica”) ed il testo della seconda proposta nel pomeriggio di venerdì 20 novembre. Curiose tempistiche, nel gioco delle proposte annunciate e comunicate, e dei testi resi poi effettivamente disponibili sui siti web di Camera e Senato (tra una data di “presentazione” e l’effettiva disponibilità dei testi possono trascorrere settimane e finanche mesi).
La proposta di riforma del Pd: anzi le 2 proposte
La senatrice Valeria Fedeli, venerdì scorso, durante il convegno Cgil, ha sostenuto che si tratta “della” proposta del Partito Democratico, e, a prima vista, i due testi di proposta normativa sembrano in effetti sostanzialmente uguali.
Entrambe le proposte dichiarano la propria genesi: il testo “riprende in parte il contenuto del disegno di legge presentato dal Governo, su proposta dell’allora Ministro delle comunicazioni Gentiloni, nel corso della XV legislatura (atto Senato n. 1588), e della proposta di legge Zaccaria ed altri nel corso della XVI legislatura (atto Camera n. 1666) che ne riproduce il contenuto”.
Abbiamo deciso di dedicare adeguata attenzione ad una lettura comparata dei due testi, ed abbiamo scoperto una differenza non indifferente: se entrambe le proposte prospettano la costituzione di una Fondazione, che diviene una sorta di “cuscinetto” protettivo dell’indipendenza della Rai rispetto alla politica (è la Fondazione a divenire sostanziale proprietario della Rai – non più il Mef – ed è la Fondazione a nominare il Consiglio di Amministrazione della Rai spa, formato da 7 membri; la Siae manterrebbe la sua quota dello 0,44 % del capitale sociale della Rai), il punto delicato della riforma è quindi determinato da “chi” nomina la Fondazione.
Sempre “la politica” è – in fondo – ma nella proposta Orlando e nella proposta Fedeli ci sono incomprensibili differenze. Differenze sostanziali, non marginali.
E naturale sorge la domanda: come si può parlare di una proposta “del” Partito Democratico, se la proposta di legge con Orlando primo firmatario diverge – in una questione essenziale – dal disegno di legge con Fedeli prima firmataria?!
Si tratta, in sostanza, di due proposte. Quindi, l’osservatore esterno (e finanche l’iscritto e militante del Pd) si domanda: di grazia, quale è “la” proposta del Partito Democratico?!
Analizziamo in dettaglio: se la quasi totalità del testo (e delle relative relazioni) è sostanzialmente identico, il “nodo” della contraddizione emerge dalla lettura comparata dei commi nei quali Orlando e Fedeli specificano come avviene la nomina del Consiglio della novella Fondazione Rai.
La questione “dolens” è al comma 7 dell’articolo 2 della proposta Fedeli ed al comma 8 dell’articolo 2 della proposta Orlando.
L’analisi comparata dei due testi – l’Atto Camera 2723 di Orlando ed il Disegno di Legge 2021 di Fedeli – evidenzia che:
- la composizione del Cda della Fondazione è di 11 membri in Orlando e di 10 membri in Fedeli (la senatrice ha eliminato il rappresentante dell’Accademia dei Lincei): in Fedeli, 5 consiglieri sono di nomina “parlamentare”, 2 di nomina “regionale”, 2 espressi dalla Conferenza dei Rettori (Crui), 1 dai dipendenti Rai;
- in Orlando, però 5 membri “parlamentari” del Cda della Fondazione sono nominati dai Presidenti di Camera e Senato, mentre in Fedeli sono eletti dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza: la differenza non è esattamente questione minore;
- nella proposta Fedeli, tutti 7 membri (parlamentari e regionali) sono eletti a seguito di una procedura ad evidenza pubblica, con invio dei curricula dei candidati ed audizioni in contraddittorio, mentre in quella Orlando sono soltanto 2 i membri “regionali” del Cda, ovvero quelli nominati dalla Conferenza Stato-Regioni.
C’è da rifletterci, ma sicuramente emerge una discreta piccola “schizofrenia” tra anime del Pd…
La proposta Fedeli ci sembra apprezzabile per la procedura “cv + audizioni” (questa istanza procedurale è stata sollecitata tante volte, nel corso del tempo, anche da “Key4biz”), mentre quella Orlando ci sembra più semplice “super partes” (dando però per scontato che i Presidenti di Camera e Senato sappiano mediare meglio rispetto alla Commissione di Vigilanza, ma è proprio così?!). Pregi e difetti, d’ognuna delle due proposte. Il dibattito è aperto.
Quale la radice di questa asintonia tra Orlando e Fedeli?!
Accantoniamo logiche infra-Pd, ovvero dinamiche “correntizie”, e cerchiamo una spiegazione.
Nella relazione che accompagna il testo proposto da Orlando, si trova la motivazione: si legge infatti che la nomina da parte dei Presidenti di Senato e Camera avverrebbe “secondo un modello che ha offerto un buon funzionamento con la legge 25 giugno 1993, n. 206”. Approfondiamo.
Cenni storici sulla composizione del Cda della Rai
Ricordiamo che, nella recente storia politico-giuridica della Rai, possono essere identificati tre “modelli” di governo:
- il primo modello è quello dettato dalla legge n. 103 del 1975, con un Cda formato da 16 membri, di cui 6 designati dall’Iri e 10 eletti dalla Commissione di Vigilanza (di cui 4 indicati dai Consigli Regionali);
- il secondo modello è stato introdotto dalla legge n. 10 del 1985 trasferiva tutta la nomina del Cda all’elezione da parte della Vigilanza;
- il terzo modello è stato determinato dalla legge n. 206 del 1993, che intendeva introdurre una disciplina transitoria, riducendo il Cda a 5 membri soltanto, che venivano nominati dai Presidenti di Camera e Senato.
È questo terzo, il “modello” cui si ispira la proposta di legge “del” Partito Democratico, ovvero – rectius – una delle 2 (quella che vede Orlando come primo firmatario) che sono state depositate a Montecitorio e Palazzo Madama.
Si tratta di una legge – n. 206 del 1993 – maturata durante la lunga “tempesta” di Tangentopoli: prevedeva un consiglio snello per superare in qualche modo la lottizzazione parcellizzata, ed il meccanismo pluralistico era basato sul principio (prassi) per il quale il Presidente di Camera e Senato erano espressione, di volta in volta, di maggioranza ed opposizione. Questo sistema è però presto andato in crisi, anche perché questa prassi è stata scardinata (dapprima con Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio e poi con Luciano Violante e Nicola Mancino). Eppure con il terzo “modello” sono stati eletti ben 6 Cda, nell’arco di 11 anni, dal 1993 al 2005: Claudio Dematté, Letizia Moratti, Enzo Siciliano, Roberto Zaccaria, Antonio Baldassare, Lucia Annunziata…
La legge cosiddetta “Gasparri”, la n. 112 del 2004 ha rappresentato un ritorno al passato, con un Consiglio formato da 9 membri: 7 membri del Cda nominati dalla Vigilanza, 2 dal Ministero dell’Economia.
La legge cosiddetta “Renzi” di nuovo assetto della “governance”, la n. 220 del 2015, ha previsto 7 membri, 2 eletti dalla Camera e 2 dal Senato, 2 designati dal Consiglio dei Ministri su proposta del Mef (di fatto Amministratore Delegato e finanche Presidente), 1 eletto dai dipendenti. Secondo molti osservatori, la riforma Renzi – che auspicava “semplificazione” decisionale (creando la figura dell’Ad) – ha di fatto finito per rafforzare il controllo dell’esecutivo e della maggioranza sul Cda, ma il nuovo Cda è il risultato di una maggioranza diversa da quella emersa dalle elezioni del marzo 2018.
In sostanza, secondo alcuni, il Pd sta cercando di superare l’errore commesso con la “riforma Renzi”, ma le idee appaiono ancora piuttosto confuse.
Le altre proposte sul tavolo – se e quando il dibattito verrà effettivamente calendarizzato… – sono sostanzialmente quella del senatore grillino Primo Di Nicola, Vice Presidente della Commissione di Vigilanza, presentata nel luglio 2019, e quella presentata nel febbraio 2020 da Federico Fornaro, Capogruppo alla Camera di Liberi e Uguali ed anche lui commissario in Vigilanza.
La proposta di Fornaro (Liberi e Uguali): una “governance” duale della spa Rai
La proposta di Federico Fornaro si pone come rivisitazione del disegno di legge depositato al Senato nella scorsa legislatura dallo stesso Fornaro. Secondo l’esponente di Leu, l’idea della “fondazione” sarebbe una inutile complicazione, e basterebbe applicare alla Rai il cosiddetto modello “duale” (tipico delle fondazioni bancarie).
Questa auspicata “governance” duale distingue tra le funzioni di indirizzo e controllo, affidate ad un “Consiglio di Sorveglianza”, e la gestione dell’azienda, affidato a un Consiglio di Amministrazione – detto “Consiglio di Gestione” – che è nominato dal Consiglio di Sorveglianza. Il Consiglio di Sorveglianza, dove siedono gli stakeholder, è costituito da 15 componenti. Il Presidente è nominato d’intesa tra i Presidenti della Camera e del Senato; 3 membri sono eletti dalla Camera e 3 dal Senato; 2 sono designati dall’Assemblea degli azionisti (di fatto, quindi dal Mef); 2 sono eletti dai dipendenti Rai (un giornalista e un non giornalista), 2 sono indicati dalla Siae (azionista di minoranza della Rai); 2 dalla Crui (Conferenza dei Rettori Universitari).
La proposta di Fornaro è stata illustrata in conferenza stampa ad inizio luglio 2020. La proposta ha registrato il plauso dell’ex Sottosegretario alle Comunicazioni dal 1996 al 2001 (esecutivi guidati da Prodi, D’Alema, Prodi) Vincenzo Vita, sulle colonne de “il Manifesto”, che così commentava genesi e storia dell’iniziativa: “l’articolato riprende e aggiorna un filo conduttore antico: dal ddl 1138 del centrosinistra 1996-2001 bloccato dall’ostruzionismo delle destre e dal fuoco amico; all’ipotesi arricchita da migliaia di firme di Tana De Zulueta; al progetto dell’allora ministro Gentiloni; a diverse altre ipotesi (tra cui quelle a firma Giulietti e Zaccaria); all’accuratissimo testo frutto di una serie infinita di confronti promossi da MoveOn depositato nella passata legislatura da Fratoianni, Civati, Scotto, Zampa, Pannarale e Pastorino”.
La proposta del Movimento 5 Stelle: Di Nicola / Fico / Liuzzi: cda sorteggiato
La proposta di Primo Di Nicola del luglio 2019 ricalca di fatto la proposta presentata da Roberto Fico nella precedente legislatura. Questa cosiddetta “proposta Fico” è stata ricalcata da Di Nicola in Senato e da Mirella Liuzzi alla Camera, nell’agosto 2018. Nell’ottobre del 2019, il senatore ha promosso un convegno, intitolato “Una nuova Rai è possibile?”, in occasione del quale ha rilanciato la propria proposta ed ha chiesto agli altri partiti di addivenire ad una sintesi delle proposte di riforma. Il suo invito non è stato granché accolto, se, a distanza di un anno, il Pd ha presentato un’altra proposta (anzi, due).
Punto centrale della proposta Di Nicola-Fico-Liuzzi è la nomina di un Consiglio di Amministrazione (la Rai resterebbe una società per azioni) affidato all’Agcom, attraverso la sollecitazione di pubbliche candidatura con invio di curriculum, da accompagnare ad un “elaborato sulla propria visione strategica del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”. Il Cda, costituito da 5 membri soltanto, verrebbe formato sulla base di una tripartizione di competenze professionali: 2 membri provenienti dai settori dell’audiovisivo e delle reti di comunicazione elettronica con competenze giuridico-economiche; 1 componente, proveniente dai medesimi settori, con competenze tecnico-scientifiche; infine, con la funzione di indirizzo strategico che il consiglio di amministrazione è chiamato ad assolvere anche sul piano dei contenuti, 2 consiglieri provenienti dal mondo degli autori, dei capi-progetto e degli ideatori di programmi radiotelevisivi. Una volta verificata la competenza, sulla base dei cv, “l’Agcom procede al sorteggio dei nominativi per ciascuna area di competenza”.
Ardita procedura, che i proponenti elevano a prassi che godrebbe di una qualche legittimazione anche nella dottrina politologica, citando James Fishkin, ma che, francamente, appare veramente eccentrica. James Fishkin è Direttore del Center for Deliberative Democracy di Stanford, ed è considerato il massimo teorico della cosiddetta “demarchia”, forma di democrazia alternativa alla democrazia elettiva, nella quale lo Stato è governato da cittadini estratti a sorte. Metodo di governo utilizzato nell’antica Atene ed in alcune città-stato del primo Rinascimento italiano, come Venezia e Firenze (sull’argomento, si rimanda al breve saggio di Nadia Urbinati e Luciano Vandelli, “Le democrazia del sorteggio”, edito da Einaudi nel 2020, ed all’articolo del magistrato Luigi Orsi, “La democrazia del sorteggio” su “Questione Giustizia”), ma si tratta veramente ardita intrapresa. Questa proposta comunque è coerente con le teorizzazioni di Davide Casaleggio, che continua a sostenere che la democrazia parlamentare sarebbe un “dead-man-walking”, nel nuovo habitat digitale ed a causa della potenza dirompente della (potenziale) democrazia diretta, che il web consentirebbe.
C’è un “minimo comun denominatore” tra le proposte Pd – M5S – Leu?!
La domanda che sorge è: le proposte del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di Liberi e Uguali, hanno un “minimo comun denominatore”?!
Di fatto sì, perché viene ribadita da tutti l’esigenza di cortocircuitare la dipendenza della Rai dalla “politica”, ma i meccanismi previsti sono assai differenti tra loro, e di difficile compatibilità.
E basti osservare le “contraddizioni interne” del Pd, con 2 proposte che sono in gran parte coincidenti (Orlando e Fedeli), ma che si scontrano – non a caso – su “chi” nomina “chi”: si converrà che non è differenza da poco un cda “nominato” in buona parte dai Presidenti di Camera e Senato ed un “cda” eletto dalla Commissione di Vigilanza.
Non sarà agevole intrapresa “mediare” tra queste impostazioni, dalla visionaria idea del sorteggio dei grillini alle contraddizioni infra-Pd alla soluzione “semplice” di Leu…
Quel che è sicuro è che nessuno ha dedicato, negli ultimi anni, particolare attenzione ad un serio studio comparativo dei modelli internazionali, dai quali si potrebbero acquisire elementi utili per un dibattito approfondito… Lo stato dell’arte delle conoscenze, in Italia, appare assai modesto.
Quel che è sicuro è che l’offensiva Pd contro l’Ad Salini è scatenata: nella mattinata di ieri domenica 22, Andrea Orlando, rispetto al “caso Morra” (il parlamentare grillino che si è espresso in modo infelice sulla defunta Presidente della Regione Calabria Jole Santelli ed è stato all’ultimo minuto escluso dalla trasmissione Rai “Titolo V”), ha sostenuto che la decisione della Rai costituisce “un precedente gravissimo per la vita democratica” del Paese, perché non è “un Ad o un direttore di rete a decidere cosa un politico può dire o non dire”. Ciò basti, per sancire il defenestramento ed intonare il requiem per Fabrizio Salini, che – secondo alcuni – starebbe seriamente riflettendo sulle proprie dimissioni, anche per evitare di far la fine del suo predecessore Antonio Campo Dall’Orto, messo sulla graticola per mesi (allorquando svanì il rapporto fiduciario con Matteo Renzi)…
Lo scontro si accentua, ma ci si domanda se l’obiettivo finale è stimolare una Rai finalmente libera dai partiti, o, in fondo, per mettere a punto un nuovo guinzaglio…
Clicca qui, per proposta di legge di riforma della Rai, a.c. n. 2723, primo firmatario Andrea Orlando (Partito Democratico), presentata il 15 ottobre 2020 (“Modifiche al testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, in materia di disciplina e organizzazione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”)
Clicca qui, per il disegno di legge di riforma della Rai, p.d.l. n. 2021, prima firmataria la senatrice Valeria Fedeli (Partito Democratico), presentata il 6 novembre 2020 (“Disposizioni in materia di servizio pubblico radiotelevisivo”)