Google non ha mollato la battaglia sulla riforma del copyright nell’Unione europea. È su tutti i principali media, dai quotidiani ai social network, la sua campagna a pagamento per chiedere la modifica (a suo vantaggio) degli articoli 11 e 13 che rientrano negli emendamenti approvati il 12 settembre scorso dal Parlamento europeo alla proposta di riformare il diritto d’autore nel mercato unico digitale.
Il Sì dell’Europarlamento ha dato l’avvio solo ai negoziati tra il trilogo Ue (Consiglio, Parlamento e Commissione) e gli Stati membri per discutere della direttiva e degli emendamenti. Poi, probabilmente in primavera, il Parlamento Ue dovrà esprimere il voto finale. Con l’ok la direttiva sarà legge nel 2021.
Perché Google vuole cambiare gli articoli 11 e 13 della riforma copyright nell’Ue?
Dunque non è ancora finita.
È stata vinta una battaglia, ma non la guerra contro i giganti del web. Per questo motivo Google è ancora alla carica sugli articoli 11 e 13.
L’articolo 11 propone l’introduzione di un nuovo diritto connesso, grazie al quale editori di giornali, giornalisti e autori di contenuti protetti dal copyright hanno il diritto di ricevere “un equo compenso” dai Big del web. Il 13 prevede per Google, Facebook, YouTube, ecc… la responsabilità (non l’obbligo di filtri) per impedire la condivisione illegale di contenuti protetti sulle proprie piattaforme.
A Google questi due articoli, così come sono stati scritti, non vanno giù, perché una volta in vigore gli imporrebbe di pagare per i contenuti in Rete di editori, autori e proprietari del copyright, finora utilizzati, principalmente, gratis. Rischia di perdere introiti ingenti e una parte del valore di Borsa.
La campagna di Google per modificare la direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale
Allora Google cerca con la campagna a pagamento sui media di influenzare l’opinione pubblica presentando la proposta di riforma come un attacco alla libertà di Internet, ecco i due slogan ideati:
- “Immagini se non potessi guardare su YouTube i video che ami, #Saveyourinternet – fai sentire la tua voce”.
- “Immagina di non poter trovare le tue notizie locali preferite o i contenuti che più ti interessano”.
Ecco la controproposta di Big G sull’articolo 13: “Noi sosteniamo gli obiettivi dell’articolo 13, ma la versione attuale proposta dal Parlamento europeo potrebbe avere gravi conseguenze non previste che cambierebbero il Web così come tutti lo conosciamo oggi”.
Al fine di evitare responsabilità legali, Google sostiene che le piattaforme digitali (YouTube, Facebook, Instagram, Soundcloud, Dailymotion, Reddit e Snapchat) potrebbero essere costrette a bloccare i video esistenti e caricati di recente all’interno dell’Unione europea, qualora contenessero elementi tutelati dal copyright di natura sconosciuta o controversa.
Quindi Google minaccia di bloccare milioni di video caricati dagli utenti se l’articolo 13 sarà in vigore così come è scritto attualmente: “potrebbero essere coinvolti 35 milioni di canali YouTube”.
Big G con la sua intensa attività di relazioni con politici, editori e autori punta anche a modificare a suo vantaggio il testo dell’articolo 11, secondo il quale dovrà riconoscere “un equo compenso” a editori di giornali, giornalisti e autori quando utilizza, per esempio in Google News, contenuti protetti dal copyright.
Immaginate quanti soldi dovrebbe sborsare.
Così Big G presenta all’opinione pubblica l’articolo 11 come una censura all’informazione locale e al giornalismo dei piccoli editori online, perché, per evitare di pagare le licenze a tutti, “Google potrebbe limitare il flusso di traffico delle news solo a determinati editori, rendendo più difficile per pubblicazioni minori, di nicchia o nuove trovare un pubblico e generare entrate”, sostiene. Ma quale editore, giornalista e autore è diventato ricco grazie alla presenza di una sua opera su Google e Google News?
Semmai è il contrario. Il business di Google con contenuti (non suoi) protetti dal copyright è maggiore di quello generato dai titolari dei diritti e non devono sorprendere e ingannare i dati forniti da Big G per l’occasione: dichiara di aver versato, complessivamente, 800 milioni di euro ai proprietari di contenuti di YouTube nell’Ue negli ultimi 12 mesi e pagati 1,5 miliardi di euro all’industria discografica nell’ultimo anno e generati dagli annunci pubblicitari. Spiccioli rispetto agli oltre 9 miliardi di utili netti generati da Alphanet solo nel 2018.
I numeri forniti da Google nella campagna sulla riforma del copyright fanno venire in mente la definizione data da Stefano Mannoni e Guido Stazi nel libro “Is competition a click away”: “Imprese che predicano il Vangelo dell’efficienza nel momento in cui esercitano la sorveglianza più estesa nella storia umana. Di percettori di rendite che mostrano scarso riguardo verso l’indipendenza dei produttori di beni che vendono. Di aziende che plasmano le menti dei cittadini, filtrando le informazioni funzionali alla formazione delle opinioni politiche”.
Da due anni in Italia Google ha iniziato a stipulare accordi con la FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) per pagare i contenuti degli editori utilizzati sulle sue piattaforme.
E alla fine anche l’articolo 11 della riforma del Copyright nel mercato unico digitale non prevede altro che la retribuzione, un equo compenso, per il contenuto, protetto dal diritto d’autore, utilizzato da Google per i suoi servizi online, dai quali fa business (guadagna dalle pubblicità inserite nei video su YouTube e continua a raccogliere in modo massiccio i dati degli utenti che effettuano le ricerche sul motore di ricerca e leggono su Google News le notizie).