Pubblichiamo l’intervento del Commissario Agcom Francesco Posteraro in occasione di ‘Eurovisioni 2016’ in corso a Roma.
Nei pochi anni trascorsi dall’emanazione della direttiva SMAV (Servizi di media audiovisivi senza frontiere) il settore audiovisivo ha vissuto profondi e radicali cambiamenti. L’evoluzione della tecnologia e il conseguente affermarsi di nuovi modelli di business hanno modificato gli equilibri del mercato, ponendo gli operatori tradizionali in concorrenza con gli OTT, ossia con soggetti che non soggiacciono alle stesse regole e agli stessi vincoli.
La riforma della direttiva – che la Commissione europea ha inquadrato nel più vasto ambito della Strategia per il Digital Single Market – risponde quindi a un’esigenza fortemente sentita dagli operatori e riguarda, non a caso, aspetti essenziali della disciplina del settore, quali l’indipendenza delle ANR Autorità nazionali di regolazione), il ruolo dell’ERGA (European Regulators Group for Audiovisual Media Services), il principio del Paese di origine e le piattaforme di video-sharing.
Per quanto concerne le ANR la proposta di direttiva rappresenta un deciso passo avanti. Nel testo vigente l’art. 30 si limita a presupporre l’esistenza di organismi di regolazione indipendenti. Il nuovo testo contiene invece un’articolata disciplina, che ha messo a frutto un report presentato dall’ERGA nel dicembre 2015 ed elaborato da un gruppo di lavoro guidato e coordinato da AGCOM.
Si prevede infatti l’obbligo per gli Stati membri di istituire tali organismi di regolazione, di garantirne l’indipendenza, di definirne le competenze per legge, di dotarli di poteri che ne rendano efficace l’azione, di assicurare ad essi idonee risorse finanziarie e umane.
Mi hanno quindi meravigliato non poco gli emendamenti all’art. 30 presentati dalla Commissione cultura del PE (Parlamento Europeo), alcuni dei quali sembrano volti a limitare l’operatività delle ANR. Il che risulta tanto più incongruo nei confronti di un’Autorità convergente come AGCOM, la quale si troverebbe in tal caso a svolgere, nella regolamentazione del settore audiovisivo, un ruolo assai più modesto di quello ad essa attribuito nel settore delle telecomunicazioni.
L’unica norma relativa alle ANR che suscita più di una preoccupazione è semmai quella del paragrafo 5 dell’art. 30, che prevede la possibilità di revoca dei loro componenti nell’ipotesi, com’è detto testualmente, che essi “non soddisfino più le condizioni richieste ai fini dell’esecuzione dei loro doveri”.
Prescindendo dalla cattiva traduzione in italiano – i doveri non si eseguono, ma si adempiono – la fattispecie sembra eccessivamente generica e tale, quindi, da lasciare ampio spazio anche a interpretazioni lesive dell’indipendenza delle ANR. Indipendenza che rischierebbe di essere ancor più gravemente limitata qualora il potere di revoca fosse attribuito ai Governi, come il silenzio sul punto della proposta di direttiva consente senz’altro di fare agli Stati membri.
Anche la norma riguardante l’ERGA (art. 30-bis) segna un progresso rispetto al passato. Da un lato, la fonte che istituisce il Gruppo dei regolatori europei dell’audiovisivo sale di grado, passando da una decisione della Commissione a una direttiva. D’altro lato, si ampliano in maniera significativa le funzioni dell’ERGA, cui si attribuisce il compito di fornire pareri alla Commissione sulle questioni relative alla giurisdizione degli Stati membri, sull’elaborazione di codici di condotta in materia di tutela dei minori, nonché su qualsiasi questione concernente i servizi di media audiovisivi, con particolare riferimento alla tutela dei minori e all’istigazione all’odio.
Pure a questo proposito gli emendamenti della Commissione cultura del PE destano parecchie perplessità, in quanto mirano esplicitamente a ridurre il ruolo e le funzioni dell’ERGA. Sembra in particolare assai poco condivisibile l’attribuzione al Comitato di contatto, ossia a un organo intergovernativo, di competenze che la proposta di direttiva assegna invece all’ERGA proprio perché strettamente connesse a quelle esercitate dalle ANR nei rispettivi ambiti nazionali.
L’obiettivo deve essere, al contrario, quello del rafforzamento del Gruppo dei regolatori. In questa ottica, qualche riserva è lecito nutrire, piuttosto, riguardo alla previsione, contenuta nel paragrafo 4 dell’art. 30-bis, secondo cui il regolamento interno dell’ERGA dovrà essere adottato dalla Commissione, e non dall’ERGA stesso, come sarebbe apparso più confacente all’autonomia di quest’ultimo.
Peraltro, il Gruppo si è già dotato, fin dal marzo del 2014, di un proprio regolamento, che dovrebbe quindi ritenersi non più valido qualora la previsione recata dalla proposta della Commissione dovesse essere confermata nel testo definitivo della direttiva. Con grande senso di responsabilità, l’ERGA ha comunque dichiarato – nella sua Opinione sulla proposta di direttiva del 5 ottobre scorso – di essere disponibile a valutare una revisione delle proprie regole procedurali.
Il principio del Paese d’origine viene mantenuto e anzi addirittura rafforzato, con la sola e non particolarmente incisiva deroga (di cui all’art. 13, par. 2) rappresentata dalla possibilità per gli Stati di imporre contributi finanziari ai fornitori di servizi di media audiovisivi a richiesta che si rivolgono al pubblico nei loro territori, anche se stabiliti in altri Stati membri.
E’ importante sottolineare che questa scelta nel senso della riaffermazione del principio del Paese d’origine è stata adottata malgrado la stessa relazione illustrativa riconosca che la direttiva continuerà a essere basata su un’armonizzazione minima delle discipline nazionali.
L’Autorità che rappresento ha espresso al riguardo una posizione critica. Nell’ambito della consultazione promossa dalla Commissione europea, AGCOM aveva fatto osservare, tra l’altro, che questa situazione avrebbe favorito una sorta di dumping normativo, incentivando i fornitori di servizi media a stabilirsi nei Paesi con una regolamentazione più favorevole.
Infatti, se è vero che il principio del Paese di destinazione potrebbe costringere gli operatori ad adattare le loro produzioni a differenti regimi giuridici, è ancor più vero, all’opposto, che il principio del Paese d’origine crea inevitabilmente, nei singoli mercati nazionali, una concorrenza diseguale tra operatori che erogano i medesimi servizi.
Pertanto, se proprio non si voleva rinunciare al principio del Paese d’origine, si sarebbe dovuta perseguire la massima armonizzazione possibile fra le discipline nazionali, attraverso un regolamento o almeno mediante formulazioni della direttiva tali da restringere l’ambito di discrezionalità degli Stati membri.
L’alternativa Paese d’origine/Paese di destinazione dovrebbe richiamare alla mente, agli studiosi di storia del diritto, la contrapposizione tra i meno evoluti sistemi giuridici fondati sul principio della personalità della legge e quelli degli Stati moderni, fondati invece sul principio della territorialità. In effetti, portarsi dietro, nei singoli mercati nei quali si opera, il diritto del Paese nel quale si è stabiliti equivale in un certo senso a negare il carattere territoriale delle norme giuridiche, che connota, come ho appena detto, l’ordinamento dello Stato moderno.
Per di più, l’applicazione del principio del Paese d’origine appare manifestamente incongrua per il settore dei servizi internet, nei confronti dei quali il concetto stesso di “stabilizzazione” sembra non altro che una mera finzione giuridica.
Quanto, infine, alle piattaforme di video-sharing, è senz’altro positivo il fatto che la proposta di direttiva le faccia per la prima volta emergere a livello del diritto dell’UE, prevedendo tra l’altro a loro carico alcuni obblighi in materia di tutela dei minori e di incitamento all’odio (art. 28-bis).
Si tratta di un primo passo nella direzione giusta. Un passo che però sembra molto meno deciso di quanto era lecito attendersi e soprattutto non sufficiente alla luce del ruolo concretamente assunto dalle piattaforme negli ultimi anni.
C’è da chiedersi, infatti, perché gli stessi obblighi non vengano imposti alle piattaforme anche con riferimento ad altre violazioni che possono verificarsi loro tramite, ad esempio in materia di tutela dell’onore, della riservatezza o della proprietà intellettuale.
Né questo potrebbe bastare per creare davvero quel level playing field necessario per dar luogo a un vero mercato concorrenziale, in quanto a questo fine le piattaforme dovrebbero essere assoggettate a vincoli analoghi a quelli cui soggiacciono i fornitori di servizi di media audiovisivi.
Nel settore audiovisivo le piattaforme svolgono la funzione di aggregatori di contenuti e in quanto tali esercitano, attraverso le funzioni di ricerca, una influenza assai notevole sulle scelte dei consumatori. Eppure la proposta di direttiva ribadisce che esse non sono titolari di responsabilità editoriale.
Non a caso, la citata Opinione dell’ERGA sulla proposta di direttiva sottolinea che sarebbe apparsa necessaria una chiarificazione della nozione di responsabilità editoriale, in modo da adeguarla alle nuove forme di gestione dei contenuti. Non averlo fatto consentirà alle piattaforme di continuare ad operare con profitto in una sorta di “zona grigia”, secondo la felice definizione adottata dalla Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera dei deputati in un’indagine conoscitiva conclusasi nel maggio 2015. Una zona grigia che i fari del diritto europeo hanno in sostanza rinunciato, almeno per ora, a illuminare.