Data protection

In ricordo di Stefano Rodotà. L’intervento del Garante Privacy Antonello Soro

di Antonello Soro, Presidente Autorità Garante per la protezione dei dati personali |

L’intervento del Presidente del Garante Privacy Antonello Soro in occasione dell’incontro in ricordo del Professor Stefano Rodotà, organizzato dalla Fondazione Basso, che si è tenuto a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo il 6 ottobre.

L’intervento del Presidente del Garante Privacy Antonello Soro in occasione dell’incontro in ricordo del Professor Stefano Rodotà, organizzato dalla Fondazione Basso, che si è tenuto a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo il 6 ottobre.

Devo vincere una forte emozione per parlare di Stefano Rodotà al passato, per tentare qualche riflessione sul suo ruolo nella storia del diritto italiano, e particolarmente del diritto alla privacy.

E prima di tutto vorrei dire che il cardine su cui ha ruotato la sua straordinaria produzione intellettuale, di uomo politico e di garante, senza soluzione di continuo, è stato la sua grande passione civile, una dimensione di dedizione integrale alla costante difesa delle ragioni della libertà.

Pochi giorni prima della morte di Stefano – per ironia della sorte nel ventennale della legge sulla tutela dei dati personali – aprivo la Relazione annuale proprio richiamando la domanda che egli poneva al Parlamento nel 1997: “…se tutto quel che è tecnicamente possibile sia pure eticamente lecito, politicamente e socialmente accettabile, giuridicamente ammissibile…”.

E sottolineavo come quella sua domanda, sul limite umano-etico, politico, giuridico, sociale della tecnica, dopo vent’anni circoscriva ancora perfettamente, pur in un contesto sempre nuovo, la vera sfida del Garante.

Nello stesso 1997, in una delle prime interviste, Rodotà dovette difendere questa istituzione dalle insinuazioni di provvisorietà, quasi come fosse un commissario chiamato a gestire un’emergenza straordinaria o a soddisfare chissà quale bizzarra esigenza legislativa.

I decenni successivi hanno dimostrato quanto invece quell’ Autorità fosse tutt’altro che provvisoria e quanto fosse invece lungimirante l’idea di chi l’aveva fortemente voluta.

Come lungimirante, per certi aspetti lucidamente “visionario” furono il suo pensiero e la sua attività, che circoscriviamo al campo della privacy, facendo torto all’ampiezza dell’orizzonte su cui invece egli si è mosso.

Per la promozione dei diritti di tutti; in primo luogo di quel diritto ad avere diritti cui aveva voluto intitolare il suo libro, traendo da Hannah Arendt la più bella definizione della dignità.

La dignità inverata nella soggettività di ciascuno, restituita all’uomo da un diritto che torni ad essere strumento di emancipazione di quanti hanno subito le ferite della storia”.

Ma per quanto sicuramente non esaustiva, la scelta di limitare il ricordo di oggi al campo della privacy ha un significato più profondo.

Nell’evoluzione che, con il suo fondamentale contributo, ha caratterizzato questo diritto nuovissimo, ma dalle radici antiche, vi è la “cifra” della sua grandezza.

E proprio dal percorso che Rodotà ha tracciato per la privacy emerge il senso autentico del suo pensiero: il diritto quale strumento al servizio del mestiere di vivere, come scriveva ne La vita e le regole: bella immagine che richiama, innovandola, quella del diritto come limite del potere.

 

Il diritto al servizio del mestiere di vivere è del resto lo strumento che, solo, può restituire centralità alla persona in un universo scardinato dalla rapidità dell’evoluzione tecnologica e dei suoi riflessi politici e sociali.

Non a caso, di quella Carta di Nizza alla cui stesura aveva contribuito, Rodotà amava citare in particolare il preambolo: “L’Unione pone la persona al centro della sua azione, quale indirizzo personalista cui la politica non può rinunciare per governare un cambiamento epocale, in cui altrimenti l’uomo rischia di soccombere.

E del resto, se la tecnologia sconvolge l’antropologia, al diritto spetta ricomporne i frantumi, governarne l’evoluzione perché l’uomo non ne sia sopraffatto. Questa idea autenticamente “personalista” e democratica del diritto – che ha pervaso tutta la sua attività parlamentare e istituzionale – è frutto della passione civile e della tensione politica che animavano il suo essere giurista.

Ed è proprio questa idea, ad un tempo progressista, democratica e personalista del diritto, ciò che ha consentito di realizzare la rivoluzione pacifica, come amava definire quella che ha caratterizzato l’introduzione e poi il consolidamento, in Italia, del diritto alla privacy. Inteso in tutta la complessità e secondo l’evoluzione che l’ha caratterizzato, dalla tradizionale riservatezza alla protezione dati, codificata dalla Carta di Nizza come un Habeas data: corrispettivo, nella società digitale, di ciò che l’habeas corpus ha rappresentato sin dalla Magna Charta.

Ciò è stato possibile attraverso un percorso che ha reso questo diritto da tradizionale appannaggio della classe borghese (lo jus excludendi alios) uno strumento di tutela delle classi più deboli dalle prevaricazioni dei potenti.

Significativamente – ricordava Rodotà – la riservatezza nasce in Italia nel 1970, con lo Statuto dei lavoratori, che vietando il controllo a distanza e le indagini sulle opinioni politiche e sindacali, protegge i lavoratori dalle penetranti ingerenze dei datori di lavoro. E se oggi le schedature della Fiat hanno lasciato il posto al controllo datoriale sulle e-mail, resta intatto il problema della difesa del soggetto più fragile perché privo di potere contrattuale.

E moltissimo, quasi tutto ciò che oggi è la realtà della protezione dati si è costruito attorno a quel binomio che Rodotà indicava già nel 1997 come costitutivo della tutela dei dati personali: la riservatezza, cui si addice il silenzio e il controllo, cui si addice la trasparenza sociale.

Nell’indicare in questi due elementi i presupposti della tutela dei dati personali, Rodotà illustrava come attraverso la congiunzione tra il potere di controllo sui propri dati e l’immunità della sfera privata da indebite ingerenze esterne, i diritti individuali potessero assurgere a strumenti di progresso sociale.

La privacy come diritto all’autodeterminazione informativa è, infatti, strumento di governo delle informazioni che ci riguardano, fondato su pretese di trasparenza, obblighi di riscontro e correttezza da parte di chi tali informazioni gestisca: dall’impresa assicuratrice al call center, dall’ospedale ai giganti della rete.

In questo senso l’affermazione della privacy si è accompagnata a una trasversale redistribuzione del potere informativo e ha, almeno in parte, corretto le asimmetrie che hanno caratterizzato il rapporto tra dignità umana ed iniziativa economica, per riprendere il binomio del 41 Cost.

Garantire il diritto alla protezione dati ha significato, dunque, impedire l’esercizio di poteri incontrollati, fondati sullo sfruttamento di quanto di più privato abbiamo, riequilibrando almeno in parte il rischio di rifeudalizzazione dei rapporti sociali.

Quanto questa idea fosse lungimirante è dimostrato dall’affermazione, resa dalla Corte di giustizia nella sentenza Costeja, della primazia di un diritto fondamentale, quale appunto quello alla tutela dei dati personali, sulla logica del profitto.

Senza questa intuizione non avremmo potuto immaginare alcuna garanzia rispetto alla tirannia del mercato e alle sue implicazioni: dalla profilazione al telemarketing, dallo sfruttamento dei big data alla pervasività dell’internet delle cose.

Ma la funzione sociale della protezione dati si è rivelata anche più ampia e profonda. Una volta proiettato oltre la dimensione del diritto ad essere lasciato solo, questo diritto ha rappresentato il presupposto per il libero spiegamento delle relazioni sociali, al riparo da rischi di stigmatizzazione sociale.

La tutela accordata ai dati sensibili (e in particolare a quelli espressivi di un momento associativo, dell’adesione a organizzazioni “di tendenza”) dimostra come la privacy, tutt’altro che favorire isolamento, sia invece funzionale a stabilire liberamente legami sociali forti e anche, se del caso, connotati sotto il profilo “ideale”.

I dati sensibili sono protetti per garantire non già la loro segretezza ma la massima esplicazione in pubblico, senza per ciò esporre l’interessato a discriminazioni.

Idea, questa, già presente, sia pur in termini diversi, nella proposta di legge presentata da Rodotà nel 1987 per la “riservatezza delle persone affette da Hiv”, in cui la garanzia di anonimato dei pazienti e la loro protezione da rischi di stigmatizzazioni sociali era funzionale, oltretutto, all’emersione del fenomeno.

La riservatezza dei pazienti realizzava quindi quel binomio dignità personale/interesse collettivo sotteso, nel 32 Cost., al diritto alla salute.

Dignità, libertà, eguaglianza: questi, dunque, i pilastri su cui si è articolato il percorso evolutivo di questo nuovo diritto, nella direzione tracciata da Rodotà.

E di fronte alla frammentazione della persona determinata dalla proiezione dell’identità in mille banche dati diverse, la protezione dati si è rivelata l’unico strumento per la ricomposizione dell’io diviso; per garantire una rappresentazione della persona nella sua integralità.

Non già diritto all’autorappresentazione quindi, ma strumento di tutela rispetto al riduzionismo o, peggio, alla distorsione che comporta la digitalizzazione (e la conseguente “polverizzazione”) dell’identità.

Già prima che Facebook divenisse “il continente” più popolato del pianeta, Rodotà aveva compreso come, con internet e la sua eterna memoria, il diritto all’identità non sia più confinabile in una dimensione statica e istantanea e non si esaurisca nel diritto all’“intangibilità della propria proiezione sociale” –  ma si estenda alla tutela di quel processo evolutivo e incrementale in cui si snoda oggi la costruzione della persona.

Era così tracciata – già a partire dalle decisioni sullo sbattezzo – la strada che avrebbe condotto al riconoscimento del diritto all’oblio, quale strumento di tutela rispetto al rischio della “biografia ferita”, della cristallizzazione della complessità dell’io in un dettaglio che lo distorce, non lo rappresenta o non lo rappresenta più.

In questo senso, il diritto all’oblio ha consentito di porre persona e storia, memoria individuale e memoria collettiva nei due fuochi dell’ellisse della rete che, accumulando ogni nostra traccia, rischia di condannarci alla prigionia di dettagli deformanti, da cui è impossibile liberarsi.

E proprio in questo suo bilanciamento con il diritto di informazione – evidente oggi nel GDPR – l’oblio si è reso strumento di una memoria sociale selettiva, legata alla funzione pubblica della notizia e al rispetto della dignità della persona.

Già prima del Codice deontologico dei giornalisti Rodotà aveva compreso del resto come, sul terreno del rapporto tra dignità, pluralismo e informazione, si giocasse una partita essenziale per la democrazia.

All’interno di questo perimetro, da parlamentare, iscriveva la questione dei reati di opinione, nella sua proposta di legge del 1980.

Ma Rodotà aveva compreso anche come la stessa costruzione dell’identità fosse insidiata dalle nuove tecnologie e dalla loro capacità di influenzare modi di essere e comportamenti.

La creazione – con le tracce della navigazione in rete – di profili di consumatori, indirizzando la produzione commerciale verso specifici modelli di utenza così da assecondarne i gusti, rischia infatti di favorire un processo di omologazione di massa e di esclusione di chi non voglia riconoscersi nel modello dominante e di tendenza.

La condivisione delle proprie esperienze, le tracce dei nostri percorsi sul web, alimentano l’economia digitale, basata sullo sfruttamento commerciale delle informazioni personali e sulla costruzione di modelli identitari omologati e omologanti, su facili “etichettamenti” che rischiano di pregiudicare la stessa possibilità dell’autodeterminazione individuale.

L’identità personale rischia così di ridursi alla determinata tipologia di consumatore, elettore, comunque utente che Amazon, Apple o Google ritengono di attribuire a ciascuno, in un gioco di profili e algoritmi che, se non ben governato, finirebbe per annullare l’unicità della persona, il suo valore, la sua eccezionalità.

In assenza di uno statuto forte della protezione dati, la società digitale rischia di divenire la società della schedatura e della profilazione e la rete, da straordinaria risorsa democratica, rischia di farsi strumento di sorveglianza globale da parte dei grandi poteri economici.

A ciò si aggiunga l’effetto del ricorso per fini investigativi alle nuove tecnologie, che rischiano di proporre il Panopticon come modello di governo dei fenomeni sociali, con uno scivolamento dallo Stato di diritto allo Stato di prevenzione.

Su questi rischi a partire dalla vicenda PNR e Swift – Rodotà ha sempre assunto posizioni chiare e forti.

 

E’, infatti, quello della tecnologia lo spazio su cui oggi, più di ogni altro, il rapporto tra libertà e sicurezza assume forme nuove e costringe a ricercare di volta in volta il limite che ne garantisca la sostenibilità giuridica e politica.

Ed è proprio questo il nodo da sciogliere, soprattutto in un contesto, quale appunto quello odierno, di terrorismo immanente, in cui il rischio più grande è quello di normalizzare l’emergenza e, con essa, la compressione dei diritti e delle libertà che ne consegue.

Non dobbiamo, dunque, vivere nel perenne incubo di una sorveglianza invasiva e ossessiva della nostra vita privata ma dobbiamo, invece, interrogarci su quanto controllo possa sopportare una democrazia e ricercare, con saggezza, il grado di libertà cui si può rinunciare, senza divenire schiavi del terrore e senza neppure soccombere.

Dobbiamo esorcizzare l’illusione che la delega agli algoritmi possa risolvere il complesso e difficile contrasto al terrorismo: in questa sfida resta insostituibile il fattore umano per rendere davvero efficaci le indagini, dando senso e forma a masse di dati, altrimenti prive di alcun significato.

E questo, tanto più in un ordinamento, quale quello europeo, in cui il diritto alla sicurezza è sancito, nella stessa disposizione, accanto al diritto alla libertà, per realizzare appunto quello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” cui alludono i Trattati.

E’ significativo, in questo senso, che la Carta dei diritti di internet redatta dalla Commissione presieduta proprio da Rodotà insista sulla proporzionalità delle misure limitative della privacy, accanto ad altri parametri essenziali per tentare di non lasciare la rete agli imperativi, mai egalitari, della lex mercatoria, demandando così alle condizioni generali di contratto la garanzia, su scala mondiale, dei diritti fondamentali.

In quella Carta – concepita come un insieme di principi su cui far convergere gli ordinamenti – vi era l’aspirazione a correggere, almeno in parte, gli squilibri propri della nuova architettura geopolitica prodotta dalla concentrazione, in capo ai monopolisti del digitale, di poteri che assumono sempre più una caratura pubblicistica.

Quella Carta riaffermava dunque un’esigenza di governo della rete(come recita il suo art. 14) attraverso principi e istituzioni democraticamente legittimati, per non demandare le sorti della più grande agorà del pianeta all’arbitrio dei giganti del web.

Questo mi sembra anche il senso profondo di tutta l’opera di Stefano Rodotà: quello di non smarrire il senso del limite di fronte alla tentazione della delega alla tecnica persino delle più grandi e complesse questioni, riportando la persona al centro di uno sviluppo tecnologico altrimenti tirannico e disumanizzante, riequilibrando il rapporto tra mercato e individuo, informazione e dignità, tecnica e vita, determinismo e libertà.

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