Sono allarmanti i particolari che emergono dal documento presentato da TIM agli analisti sull’operazione FiberCop e sulla futura fusione con Open Fiber per la creazione della rete unica (AccessCo).
Ciò che emerge è che TIM vuole che la partita si giochi tra le discrete ed amiche mura di casa, con l’obiettivo di evitare di coinvolgere la Commissione europea, un errore di non poco che rischia di compromettere anche l’utilizzo del Recovery Fund da parte del nostro Paese per il progetto fibra destinato alle aree grigie.
La presentazione di Tim
Nella presentazione di TIM (vai alla presentazione) si legge infatti come sia la chiusura dell’operazione FiberCop (con il conferimento della rete secondaria di TIM, quella che va dagli armadi stradali fino alle abitazioni, in una nuova entità detenuta al 58% dalla stessa TIM, al 37,5% dal fondo di private equity americano KKR e al 4,5% da Fastweb), sia la firma della fusione con Open Fiber sono previste nel primo trimestre del 2021, ovvero successivamente all’ottenimento delle necessarie autorizzazioni da parte di AGCOM, AGCM e all’assenso del governo nell’ambito delle sue prerogative previste dalla Golden Power.
In tutto questo, non vi è alcun riferimento alla Commissione europea e al suo ruolo.
E invece è molto probabile (e per quanto ci riguarda, ne siamo certi) che la Commissione europea abbia un ruolo centrale in tutta la vicenda.
In base alla presentazione di TIM, al fondo americano KKR sarà conferito il diritto di nominare 3 membri del Board dei Direttori, fra cui il CFO, e il presidente di concerto con TIM.
Si tratta quindi di un’ipotesi di controllo congiunto della nuova entità, che come tale integra gli estremi di una “concentrazione”. Ne è la riprova il fatto che TIM indichi come necessaria l’autorizzazione antitrust di AGCM.
Tuttavia, dal momento che KKR realizza fatturati anche in altri Stati membri dell’UE per via delle numerose partecipazioni che detiene in aziende europee (da ProsiebenSat a Mas Movil), la competenza a pronunciarsi su tale concentrazione sarebbe tecnicamente della Commissione europea.
E quindi, già per quanto riguarda il controllo sull’operazione FiberCop si delineerebbe uno scenario più complesso di quanto venga fatto apparire.
Il ruolo di Bruxelles
Nell’esaminare l’operazione, la Commissione europea dovrebbe verificare che sia rispettata la concorrenza nei mercati interessati.
Qualora all’esito di tale valutazione la Commissione esprimesse seri dubbi sul mantenimento della concorrenza, le parti notificanti dovrebbero proporre precisi impegni. Se questi non fossero sufficienti, la Commissione europea potrebbe imporre dei rimedi di vario tipo, come la cessione di assets a concorrenti, una diversa governance della nuova entità e in generale misure volte a garantire l’apertura della rete ai concorrenti e il trattamento non discriminatorio da parte della nuova entità nei confronti di questi.
Pur ammettendo che la creazione di FiberCop venisse dichiarata compatibile con il mercato interno da parte della Commissione europea, per le stesse ragioni suddette legate alla ripartizione di competenze, la stessa Commissione dovrebbe poi valutare la successiva operazione di fusione fra FiberCop e Open Fiber per la creazione della rete unica.
Qui la situazione si fa davvero intricata.
Non esiste allo stato attuale un precedente di “ri-monopolizzazione” di una rete di telecomunicazioni in Europa, dopo la liberalizzazione delle Tlv europee di metà anni Novanta, il che già getta una luce del tutto particolare sull’unicità del caso italiano.
In tale contesto sarà davvero difficile immaginare che la Commissione europea, che aveva salutato con favore l’ingresso sul mercato di Open Fiber in qualità di operatore wholesale-only (ovvero attivo solo sul mercato all’ingrosso) in concorrenza con l’incumbent TIM, possa vedere di buon occhio l’abbandono della concorrenza infrastrutturale e il ritorno ad una rete unica, a maggior ragione se controllata da TIM, come traspare dalle intenzioni espresse dal suo amministratore delegato Luigi Gubitosi.
Le due possibili soluzioni
Di fronte alla notifica di un progetto simile, ci sono due possibili soluzioni.
La prima è la soluzione più netta, ovvero la bocciatura tour-court dell’intera operazione.
La seconda è quella dell’imposizione di rimedi molto stringenti, che TIM difficilmente potrebbe essere disposta ad accettare.
Quali potrebbero essere questi rimedi?
In primis, la separazione strutturale della rete di TIM, comprensiva della porzione secondaria conferita nella nuova entità FiberCop. TIM è un incumbent verticalmente integrato e il mantenimento del controllo della rete, pur se accompagnato da garanzie varie e magari da un aumento dei poteri dell’Organo di Vigilanza, rischia di non essere sufficiente a garantire il rispetto della concorrenza, considerato che al contempo non esisterebbero più reti alternative dopo la fusione con Open Fiber (e in assenza di una rete cavo, caso unico in Europa insieme alla Grecia).
Oppure, la cessione del controllo a Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e l’imposizione in capo a TIM di un obbligo di partecipazione inferiore al 25%.
Inoltre, dal momento che AccessCo si ritroverebbe a gestire in condizione di monopolio un servizio d’interesse economico generale, è difficile immaginare che la nuova entità non venga sottoposta a determinati obblighi per così dire “di mandato”, altrimenti non vi sarebbe ragione alcuna per la sua creazione a scapito dell’attuale concorrenza infrastrutturale che, va ricordato, ha consentito di accelerare l’infrastrutturazione del paese con le nuove reti.
Che tipo di obblighi?
Uno di essi potrebbe essere ad esempio l’impegno a procedere allo switch-off della rete in rame in tempi brevi e magari la previsione di tempistiche precise e serrate per il cablaggio del territorio nazionale, tempistiche più serrate rispetto a quelle già previste oggi dal piano di Open Fiber. Obblighi, va detto, che difficilmente TIM avrebbe l’incentivo a rispettare, nel caso in cui mantenesse il controllo di AccessCo e fosse al contempo attiva nel mercato dei servizi, dove ancora la gran parte dei suoi ricavi derivano dalla rete ADSL o FTTC (quindi connessioni fibra misto rame).
Infine, a seconda della governance della nuova entità, anche qualora venisse approvata, vi sarebbero diverse conseguenze da un punto di vista di regolamentazione.
Sarebbe, ad esempio, impensabile un ricorso al modello di remunerazione privilegiato della RAB, che tiene in considerazione i costi sostenuti per gli investimenti, in assenza di un controllo nelle mani di CDP.
In tal caso, AGCOM dovrebbe dunque notificare alla Commissione europea una complessa analisi di mercato che tenga in considerazione la posizione dei vari operatori alternativi privati di una scelta infrastrutturale, ma probabilmente ancora in concorrenza con l’incumbent verticalmente integrato. Senza contare che l’intera operazione, che nelle intenzioni dovrebbe servire per colmare il digital divide e andare a beneficio di tutti i consumatori, non potrebbe poi comportare per questi in alcun caso un aumento dei prezzi, specie se non accompagnato dai necessari investimenti nelle nuove reti interamente in fibra a prova di futuro.
Tim e CDP: tanti ostacoli da superare
Ma anche sulle tariffe potrebbe, nuovamente, abbattersi l’ascia della Commissione europea.
La Commissione potrebbe infatti imporre ad AccessCo delle tariffe basate su uno stretto orientamento ai costi di un operatore efficiente, quindi anche molto più basse di quelle attuali.
In conclusione, molti sono gli ostacoli che il progetto di costituzione di una rete unica, alla quale TIM e CDP stanno lavorando alacremente, deve superare. Ostacoli, va specificato, non tanto a livello nazionale, quanto a livello europeo.
La Commissione europea da oltre 30 anni va difendendo l’apertura dei mercati, le liberalizzazioni e la concorrenza. Difficile immaginare che possa permettersi di avere un precedente, come quello italiano, che sarebbe un cattivo esempio per tutti gli altri paesi europei.