Un amico chiede cosa significhi, per me, essere realista.
Non poteva esserci domanda al contempo più semplice e più difficile. Perché oggi, guerra in Ucraina compresa e a parte, sono proprio in gioco la percezione, la comprensione e la conoscenza della realtà che viviamo.
Vivere non significa conoscere. Molto spesso, infatti, viviamo “lasciandoci vivere”, facendoci trascinare in quel mix inestricabile di verità dei fatti, mala informazione, disinformazione. La rivoluzione digitale, se da un lato ci rende liberi nell’ accesso indiscriminato a svariate fonti aperte, dall’altro lato ci mette di fronte a una informazione “costretta” (l’evidenza come presunta Verità), tutt’altro dal conoscere.
In questo contesto, credo che sia necessario ri-pensare l’idea di realismo. Nulla è come appare. Le ragioni e i torti reciproci, nei fatti che cerchiamo di capire o di analizzare, sono parte di tutte le posizioni in campo. Non esiste il male assoluto separato dal bene assoluto.
Una prima considerazione che farei sul “realismo ri-pensato” è la seguente: fuggire dall’approccio manicheo. La storia non può essere letta solo in termini di bianco/nero, amico/nemico, separando e creando fossati di incomprensione e di scontro, quando non di guerra.
Abbiamo una grande responsabilità, da realisti: restituire dignità al conflitto. È questo, infatti, che rende vive le nostre democrazie ed è questo che vorremmo negare ogni giorno, innaturalmente “pacificando”, e omologando, le differenze. Attenzione perché, la storia ci insegna, negando il conflitto le democrazie rischiano di trasformarsi in altro.
In secondo luogo, “realismo ri-pensato” fa rima con pensiero critico e complesso. Se nulla è come sembra, e se il manicheismo va lasciato ai “sacerdoti di parte” (che vorrebbero fosse il tutto), per conoscere non valgono né l’approccio ortodosso a prescindere né quello antagonistico. Mentre il primo ci avvolge in una sorta di linearità senza confronto (siamo parte della parte di mondo che ha capito tutto), il secondo ci porta fuori campo rispetto alla storia: perché, e questo è un terzo punto del realismo (secondo me), esistono e non possono essere accantonati o nascosti i rapporti di forza (rapporti di potere) che ci appartengono e che, naturalmente, appartengono agli Stati e a tutti i player globali.
Per essere realisti, dunque, val bene sposare il panikkariano principio di relatività. Lasciamo la Verità della Storia a chi ci giudicherà in un’altra dimensione (per chi, come me, ci crede): qui, sulla Terra, non essendoci dei di sorta, dobbiamo lavorare ogni giorno per dipanare la matassa di una storia che nasce ed evolve nella nostra responsabilità (anche personale). E questo passa, anzitutto, da un “disarmo culturale” delle nostre posizioni di parte: relatività, complessità e critica, dunque, sono le (mie) parole-chiave di e per un “realismo ri-pensato”.
La riflessione, inevitabilmente, continua (e ringrazio l’amico, non immaginario, che mi ha provocato).