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Rapporto Federculture, l’Italia resta indietro in Europa

Questa mattina è stata presentata, nel Salone “Spadolini” della sede del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact) al Collegio Romano, la 15ª edizione del “Rapporto annuale” di Federculture, associazione di imprese ed enti pubblici attivi nel settore culturale (presieduta da Andrea Cancellato) che opera in sintonia con l’Agis (presieduta da Carlo Fontana).

Il rapporto è intitolato “Impresa cultura”, sottotitolo “politiche, reti, competenze”, ed è pubblicato per i tipi di Gangemi Editore (329 pagine).

È stato proposto un corposo set di dati, frammentati e disorganici, che pure lasciano intravvedere la vera verità (al di là del tono complessivamente positivo della presentazione): lo stato di salute del sistema culturale italiano non è buono (anzi…), ci sono segnali di incoraggiamento (per esempio, sembra crescere la fruizione museale), ma l’inversione di tendenza avviata anni fa dal titolare del Mibact Dario Franceschini (dal febbraio 2014 al giugno 2018, e nuovamente dal settembre 2019) nell’aumentare la spesa pubblica non mostra ancora risultati consolidati.

Un dato emerge su tutto, nel confronto con gli altri Paesi: siamo quartultimi in Europa (0,8 %) in rapporto al Pil e terzultimi (1,7 %) in rapporto alla spesa pubblica totale.

Nell’arco di 10 anni, sono stati persi 700 milioni di euro di risorse pubbliche destinate alla cultura.

Quel che emerge, al di là di alcuni dati impietosi, è un deficit di visione unitaria e strategica, nelle politiche culturali italiane, e, prima ancora, una carenza di “dataset” che siano affidabili, accurati, validati, e soprattutto ricondotti “ad unità”, per una interpretazione coerente ed organica dei fenomeni in atto.

Nessuno dispone in Italia di dati accurati e di analisi approfondite che siano al contempo ricondotte ad un livello di lettura superiore, che è (dovrebbe essere) giustappunto quello del “policy making” adeguato.

Tante volte, anche su queste colonne, abbiamo segnalato (denunciato) il depotenziamento di quelle che dovrebbero essere le strutture istituzionalmente preposte: dall’Ufficio Studi all’Osservatorio dello Spettacolo del Mibact. Nel corso dei decenni, queste strutture sono state definanziate, e non esiste più una fonte istituzionale autorevole per capire cosa accade nell’economia del sistema culturale italiano. Basti osservare che la pagina web dell’Ufficio Studi del Ministero (Ufficio che, sulla carta, esiste ancora), è aggiornata a cinque anni fa, e l’ultima edizione del volumetto “Minicifre della cultura” è ferma all’edizione 2014 (se si cerca di accedere ai contenuti dalla home-page, emerge uno sconfortante avviso “403 Forbidden”!).

Quindi – come spesso accade, e non soltanto in questo settore – lo Stato finisce per essere costretto a ricorrere ai privati, cioè a soggetti che sono comunque latori di interessi inevitabilmente partigiani. Con buona pace di un “evidence-based policy making” che dovrebbe essere frutto dell’elaborazione interna, autonoma, indipendente di chi Governa.

I privati finiscono per essere i “portatori di dati”, i fornitori di analisi per la mano pubblica: quasi un paradosso!

E questi dati vengono spesso fatti propri (metabolizzati) dal “decision maker” pubblico di turno: oggi, per esempio, siamo rimasti veramente senza parole, nell’ascoltare il Ministro che ha rilanciato le numerologie astrali secondo le quali l’1,3 % del Pil nazionale sarebbe provocato dai musei statali (!), facendo riferimento ad una controversa ricerca della Boston Consulting Group recentemente presentata (vedi “Key4biz” del 8 ottobre 2019, “Economia dei musei in Italia, numeri in libertà al ministero?”).

Federculture e Symbola

Due sono ormai i “testi di riferimento” (sic) nell’economia e nella politica della cultura in Italia: il “Rapporto annuale” di Federculture, giustappunto, ed il rapporto “Io sono Cultura” della Fondazione Symbola (presieduta da Ermete Realacci). Il primo è giunto all’edizione n° 15, il secondo soltanto all’edizione n° 9 (l’edizione 2019 è stata presentata il 20 giugno 2019, anch’essa nel Salone “Spadolini”, con coreografia pressoché identica, anche se allora officiava il Ministro grillino Alberto Bonisoli).

Entrambi propongono una discreta messe di dati, ma si tratta di numerologie basate su metodologie deboli, e comunque offrono approcci frammentati, privi di una interpretazione organica, sistemica, strategica (si veda “Key4biz” del 22 giugno 2018, “I numeri (troppo) in libertà dell’industria culturale italiana”).

Sia ben chiaro, si tratta comunque di strumenti utili, ma non rispondono realmente all’obiettivo che si pongono, ovvero “fotografare” lo stato di salute del sistema: propongono interessanti tasselli, ma non sono in grado di produrre un mosaico completo.

Entrambi gli studi fanno molta leva sugli aspetti quantitativi, numerici, statistici, e finanche economici: da molti anni, sembra che “l’economico” sia quasi-quasi garanzia di “senso dello Stato” più de “il sociale”, in una continua deriva mercatista della “res publica”. In effetti, “l’economico” consente di “quantificare” (stendiamo un velo di silenzio su “come” quantificare…), e questa oggettivazione numerica sembra avere effetti miracolosi (sull’opinione pubblica).

Anche questa mattina, in un mantra ormai un po’ noioso, il Ministro Dario Franceschini (che sicuramente è stato e resta uno dei più sensibili titolari “pro tempore” del dicastero) ha ricordato che si tratta del “ministero economico più importante d’Italia” (frase ormai storica che ha pronunciato in occasione del suo primo insediamento, e che ha ribadito tante volte), anche se ha precisato che sicuramente vengono prima i valori del dettato costituzionale.

Quindi la cultura non deve essere considerata, e sostenuta, soltanto ponendo enfasi sulla sua capacità di produrre reddito ed occupazione, ma anche per quei valori di stimolazione civile e coesione sociale ed estensione del pluralismo sui quali si deve reggere una repubblica moderna ed evoluta.

In ogni caso, in queste occasioni, vengono sciorinati dati, dati, dati.

Dati non validati, dati parziali, dati frammentati, che possono essere letti comodamente “in positivo” o “in negativo”: assai raramente, però, Federculture o Symbola mettono il dito nelle piaghe (e pieghe) del sistema, se non in modo sommesso assai.

Tante conoscenze parziali

Invece, di anno in anno, sia con Symbola sia con Federculture (e talvolta con qualche altro soggetto minore che entra in scena), si assiste a veri e propri riti, occasioni nelle quali si finisce per celebrare – finanche involontariamente – la bontà del Ministro in carica.

Mai una voce in dissenso, mai un confronto (e magari anche scontro) dialettico.

Per alcuni aspetti, certamente sì, comunque è sì utile, perché – in entrambi gli studi – vengono coinvolti operatori del settore e di ricercatori specializzati (decine e decine, con continui avvicendamenti, e quindi sostanzialmente assenza di base storica comparabile evolutivamente), che riportano notizia anche di studi altrimenti destinati alla semi-clandestinità.

Quindi, tutto quel che incrementa il livello di conoscenza non può che essere apprezzato.

Quel che manca è la fase successiva: il passaggio dalla “conoscenza” alla “coscienza”.

E la “coscienza” non può che essere frutto di un dibattito aperto, duro se necessario, coinvolgendo anche i dissidenti e dissenzienti, coloro che il sistema di potere raramente ascolta.

Intanto, i “lavoratori della cultura” fanno la fame

Un esempio concreto: nessuna eco, oggi al Ministero, di quanto presentato ieri, nella Sala Stampa di Montecitorio (messa a disposizione da Nicola Fratoianni, segretario uscente di Sinistra Italiana), dalla vivace associazione “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, ovvero i risultati di un sondaggio demoscopico cui hanno risposto 1.546 operatori del settore.

È emersa una situazione disastrosa, terribile, anzi drammatica, nel settore dei beni culturali: sfruttamento diffuso e paghe misere, se si pensa che un 50 % guadagna meno di 8 euro l’ora. Esiste un contratto collettivo nazionale di lavoro (quello stipulato giustappunto da Federculture), ma, secondo gli intervistati, soltanto un 7 % dei lavoratori lo vede applicato.

Temiamo però che questo studio (un sasso nello stagno del “cheto vivere” delle istituzioni) possa fare la fine di un’altra interessante iniziativa promossa l’anno scorso dalla Fondazione Di Vittorio assieme al Sindacato Lavoratori della Conoscenza (Slc) della Cgil, con il dimenticato (dalle istituzioni e dai politici) studio “Vita d’artista”: da quel dossier emergeva che il 71 % dei lavoratori dello spettacolo avrebbe una retribuzione media annua di poco superiore ai 5mila euro l’anno, al di là del lavoro in nero e di varie forme di sfruttamento altro…

Anche questi sono… “numeri della cultura”, anche se meno grandiosi del budget del Ministero o della quota della cultura sul Pil nazionale o degli 800mila “occupati” che secondo Federculture lavorano nel settore culturale italiano (ma… “come” lavorano?!?): e forse su queste numerologie, assai più concrete, si dovrebbe ragionare in modo critico, propositivo, progettuale.

E questo è soltanto un esempio di quel che non è emerso nella elegante ed ovattato Salone Spadolini al Collegio Romano.

L’unico segnale di profonda criticità che è stato evidenziato è il calo della lettura, ovvero la quantità decrescente di italiani che acquistano (leggono) un libro ogni anno… ma, anche in questo caso, dati noti anzi stranoti.

Tralasciamo infine alcune criticità delle metodologie. Un esempio, tra tutti, nell’odierno “Rapporto Federculture”: dato che la Società Italiana Autori Editori (Siae) produce dati oggettivi, validati, certificati, in materia di consumi nel settore dello spettacolo (cinema, teatro, musica, danza, eccetera), pubblicati nel tradizionale “Annuario dello Spettacolo” (clicca qui, per un approfondimento), perché Federculture utilizza invece dati delle indagini cosiddette “Multiscopo” dell’Istat, che sono pur sempre indagini campionarie?

Unica significativa novità della mattinata è rappresentata dall’annuncio della creazione di una nuova struttura del dicastero, ovvero – forse – di una nuova Direzione Generale, che si occuperà specificamente di “industrie culturali e creative”.

Ha infatti dichiarato Dario Franceschini: “La cultura è strategica per la crescita sostenibile del Paese. L’Italia ha sempre saputo fare dell’intreccio tra bellezza, arte e creatività un tratto fondante della propria identità e un elemento di forza. Scommettere su questa vocazione del Paese è una delle chiavi per affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Per questo, ho sostenuto e sostengo che il Ministero della cultura e del turismo sia il principale dicastero economico del Paese. Adesso è importante investire sempre di più nella creatività e nel contemporaneo, senza dimenticare il dovere di custodire e valorizzare l’inestimabile patrimonio che abbiamo ereditato dal passato. Nel nuovo assetto del ministero, pertanto, ci sarà una struttura che si occuperà permanentemente delle industrie culturali e creative”.

Intitolavamo la prima edizione di questa rubrica su “Key4biz” (4 luglio 2014), “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri”: a distanza di oltre cinque anni, lo stato dell’arte delle conoscenze non è granché evoluto. Evidentemente coloro che guidano il Mibact sono soddisfatti dei “dataset” di cui dispongono. E qui… ci tacciamo.

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