Il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo e i modi per finanziarlo hanno occupato una posizione marginale in campagna elettorale. Solo la proposta di abolire il canone destinato alla Rai, lanciata in modo un po’ improvvisato da Matteo Renzi, ha richiamato per qualche giorno l’attenzione dei media, senza però sollecitare un confronto approfondito tra le forze politiche. La tassa pagata per i servizi offerti dalla Rai in realtà ha un peso economico che gran parte delle famiglie può sostenere facilmente, ma molti la percepiscono ormai come ingiusta. Probabilmente perché una parte non trascurabile degli utenti non identifica nell’offerta della Rai un servizio di «rilevante interesse generale» tale da giustificare il finanziamento pubblico.
Il problema non è soltanto italiano, ma è sollevato in modo ricorrente nel dibattito politico in Francia, Spagna, Germania, nei Paesi scandinavi e altrove in Europa. Nel Regno Unito è affrontato regolarmente a ogni scadenza della decennale concessione con cui lo Stato definisce i compiti e l’organizzazione della Bbc (Royal Charter). Il caso più recente è quello del referendum svizzero sull’abolizione del canone, che ha messo seriamente a rischio l’esistenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Il risultato è stato favorevole al canone (72%), quindi al servizio pubblico, seppure con una forte astensione dal voto (46%). Il servizio radiotelevisivo pubblico ha una lunga tradizione in Europa.
La sua legittimità e importanza sono state riconosciute per molti anni da una larga maggioranza delle forze politiche, anche se quasi ovunque non sono mancati contrasti talvolta acuti sulla gestione e sulle molteplici revisioni delle regole di riferimento. È anche vero che in tutta Europa, dopo l’entrata in scena più o meno irruente delle radio e delle televisioni private, l’affezione e l’adesione popolari al servizio pubblico si sono progressivamente attenuate. La misura più evidente è la progressiva riduzione degli ascolti dei servizi pubblici, dopo la fine dei monopoli di Stato, e il segnale più recente è il già citato voto svizzero sul canone radiotelevisivo, quindi sul servizio pubblico. I risultati del referendum, come si è detto, lo hanno confermato col 72% dei voti, però se sommiamo gli astenuti (46%) ai voti contrari al canone (28%) scopriamo che nel Paese c’è una larga maggioranza decisamente sfavorevole alla permanenza del servizio pubblico, o poco interessata alla sua sopravvivenza.
La disaffezione di una parte consistente dell’audience, insieme alle crescenti critiche rivolte da più parti al servizio pubblico, mette in evidenza le difficoltà e, in alcuni casi, la crisi che l’istituzione sta vivendo in varie parti d’Europa. Per valutare meglio la rilevanza del tema, la sua attualità e alcune delle scelte possibili è utile ricordare il quadro di riferimento europeo, i modelli di finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo prevalenti e infine alcuni dei punti di vista che si distinguono nel dibattito sul sistema radiotelevisivo e sul ruolo da attribuire al servizio pubblico.
In generale l’Unione europea riconosce che «il sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati membri è direttamente collegato alle esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni società, nonché all’esigenza di preservare il pluralismo dei mezzi di comunicazione» (Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam, 1997). Su questa base si riconosce agli Stati membri il diritto di finanziare il servizio radiotelevisivo pubblico, ma ciò deve avvenire nel rispetto di tre condizioni principali:
- a) i contenuti delle funzioni di servizio pubblico devono essere definiti; occorre cioè che lo Stato individui esplicitamente in cosa consiste il servizio pubblico in termini di qualità e quantità dei programmi e di altre funzioni eventuali;
- b) il finanziamento pubblico deve essere destinato solo allo svolgimento di quelle funzioni; occorre cioè poter isolare anche dal punto di vista amministrativo e gestionale le attività di servizio pubblico da quelle di altro tipo (commerciale) in modo da garantire che le risorse pubbliche finanzino esclusivamente il servizio pubblico;
- c) il finanziamento pubblico non deve interferire con le condizioni di scambio e di concorrenza nel mercato; le imprese che ottengono le risorse pubbliche per svolgere le funzioni di servizio non devono usarle per ottenere vantaggi competitivi nei confronti delle imprese concorrenti nel mercato televisivo.
Anche se non è detto esplicitamente, dal testo del Protocollo di Amsterdam si può ricavare l’idea che la televisione pubblica dovrebbe offrire un servizio, ossia dei programmi che hanno contenuti e obiettivi distinti da quelli delle televisioni private, evitando di competere con loro. Inoltre va osservato che lo stesso documento non vincola l’esercizio del servizio pubblico a un’impresa pubblica e neppure a un’unica impresa. In altri termini, il servizio pubblico finanziato dallo Stato potrebbe essere realizzato anche da imprese televisive private, ma questo aspetto sarà ripreso in seguito.
Oggi, in Europa, ci sono tre modelli principali di finanziamento del servizio pubblico. Il più seguito è quello basato sul canone, con l’aggiunta della pubblicità che deve mantenere un ruolo secondario (con regole e pesi diversi da Paese a Paese). L’Italia, la Francia e la Germania, per esempio, hanno adottato questo modello ormai da molto tempo, non senza periodiche critiche e messe a punto. Il secondo modello è quello basato esclusivamente sul canone.
Questo tipo di finanziamento funziona fin dall’origine del servizio pubblico nella maggior parte dei Paesi scandinavi e nel Regno Unito, dove la Bbc ricava una parte di introiti secondari (20%) da attività commerciali non pubblicitarie. Il terzo modello è basato sul finanziamento prevalente a carico del bilancio ordinario dello Stato in assenza del canone. In Spagna non si è mai pagato il canone e, dopo varie vicende, oggi il servizio pubblico nazionale è finanziato prevalentemente dallo Stato con contributi aggiuntivi e con l’esclusione della pubblicità.
Tra i contributi aggiuntivi ci sono quelli delle imprese televisive private e delle imprese di telecomunicazione, che devono versare il 3% dei loro introiti annuali a favore del servizio pubblico nazionale. Anche in Belgio non si paga il canone: nella regione fiamminga il finanziamento è statale e i canali pubblici non trasmettono la pubblicità, mentre nella regione vallone al finanziamento pubblico si aggiunge una parte secondaria di pubblicità. In Olanda non si paga più il canone dal 2000 e la televisione pubblica è finanziata con un prelievo sul bilancio ordinario dello Stato a cui si aggiunge come fonte secondaria la pubblicità. Nessuno dei principali modelli (qui tratteggiati solo nei loro aspetti essenziali) è esente da critiche e discussioni, che si riaccendono in occasione del rinnovo delle concessioni o della proposta di nuove regole nei rispettivi Paesi d’adozione.
L’idea di far pagare a tutti gli utenti un canone per finanziare il servizio pubblico risale, com’è noto, agli anni Venti, quando nacque nel Regno Unito la radio pubblica; questo modello fu progressivamente adottato dalla maggior parte dei Paesi europei. In Europa la radio e poi la televisione sono state gestite per lungo tempo in forma di monopolio pubblico e il finanziamento da parte degli utenti avrebbe dovuto favorire una gestione indipendente ed equidistante dalle forze politiche ed economiche, con il fine di perseguire obiettivi d’interesse generale.
Però il contesto radiotelevisivo e mediatico è ovunque cambiato radicalmente, e gli argomenti a sostegno della permanenza del canone si sono molto indeboliti.
Le principali riflessioni critiche verso il canone riguardano tre aspetti. La prima considerazione è che oggi le abitudini di molti telespettatori sono cambiate rispetto a epoche televisive precedenti. Nell’epoca del monopolio pubblico televisivo e poi fino a quando larga parte dei bisogni, degli interessi e dei desideri dei telespettatori era soddisfatta dai canali televisivi pubblici, la situazione destava minori critiche. Da tempo però, in quasi tutta Europa, i telespettatori che si rivolgono ai canali pubblici sono in calo e il loro numero ormai oscilla, secondo i Paesi, tra il 20% e il 40% del totale (dati dell’Osservatorio europeo dei media).
È una situazione che sembra irreversibile, se consideriamo da una parte la moltiplicazione, in atto da tempo, dell’offerta di contenuti audiovisivi e dall’altra la progressiva frammentazione dell’audience.
Oggi una parte dei telespettatori guarda sistematicamente altri canali, e non sente alcun bisogno di quelli pubblici; un’altra parte guarda anche quelli pubblici, in modo però occasionale o per caso e se non ci fossero forse non ne sentirebbe la mancanza. Credo che il referendum svizzero del marzo 2018 fotografi con precisione una situazione riscontrabile anche in altri Paesi europei. Insomma, il pubblico che segue prevalentemente l’offerta del servizio pubblico si è molto ridotto, forse è ormai una minoranza, e in prospettiva potrebbe più facilmente calare invece di recuperare terreno. Inoltre, il fatto che il canone sia percepito come un’imposta destinata al finanziamento di un servizio specifico porta chi non lo utilizza a considerarlo come un «sopruso».
Vi sono poi altri limiti del finanziamento basato totalmente o prevalentemente sul canone che sono di minor evidenza, e che per questioni di spazio rimandiamo ad altra occasione. Due aspetti che invece occorre ricordare almeno brevemente riguardano da una parte il finanziamento derivato prevalentemente dalla pubblicità e dall’altra quello derivato direttamente dal bilancio dello Stato. Il problema del primo è la natura incerta del finanziamento pubblicitario, dovuta alla sua dipendenza dal ciclo economico. Nei momenti di recessione, infatti, gli investimenti pubblicitari si riducono in modo netto, come è successo
Oggi una larga parte dei telespettatori non sente alcun bisogno dei canali pubblici in Europa anche in occasione dell’ultima crisi economica. Ma il problema maggiore è un altro: la necessità di massimizzare l’audience per conquistare gli investimenti pubblicitari, in competizione con le altre imprese televisive, appare in generale poco o per nulla compatibile con la natura e gli scopi del servizio pubblico.
La decisione di affidare per esempio il finanziamento della Rai alla raccolta pubblicitaria, come proposto nel dibattito pre-elettorale in Italia, nuocerebbe alle televisioni private, in primis a Mediaset, ma nuocerebbe ancor di più al servizio pubblico, che rischierebbe il «suicidio». La sua attività infatti non si distinguerebbe più da quella dei privati, perdendo così la sua funzione.
D’altra parte anche affidare il servizio pubblico al finanziamento diretto dello Stato presenta dei rischi: il principale è quello di rafforzare l’influenza delle forze politiche, che idealmente dovrebbero invece limitarsi alla funzione di indirizzo e vigilanza, senza intervenire nelle decisioni gestionali e produttive. Si può prevedere che se questo rischio non è stato evitato nei Paesi dove i telespettatori pagano il canone, sembra ancora più difficile evitarlo con il finanziamento diretto dello Stato.
Questo articolo è apparso originariamente sulla rivista “Il mulino ed. 2/18”. Per leggere l’articolo completo clicca qui.