Sono sensibile alle sorti della RAI, azienda in cui mi sono formato – prima dei miei trenta anni – come dirigente, che ho lasciato per crescere, ma imponendomi una chirurgia che ha tenuto viva in me una tensione rivolta sempre comunque al suo miglioramento. Ho partecipato al recente bando per la ricomposizione del CdA, sapendo che un dignitoso cv è argomento necessario ma non sufficiente e che il quadro in cui si vanno compiendo le scelte è al tempo stesso vecchissimo e nuovissimo.
Penso che l’espressione “prove di Terza Repubblica” non debba e non possa riferirsi al solo “contratto di governo”. Ovvero che sia necessario guardare in tanti atti o ipotesi di atti che fanno ora notizia questa distinzione tra “vecchissimo” e “nuovissimo”. Uno di questi atti è costituito dal proposito della Lega, convergente 5 Stelle e favorevole il premier Conte, di portare alla presidenza della RAI Marcello Foa.
Non conosco Foa, ma conosco alcuni ambienti in cui ha lavorato e conosco un poco la tematica che lo ha maggiormente impegnato, come professionista e come ricercatore, caratteri che non gli vanno negati.
La questione
Rispetto all’Italia della transizione, anche nel quadro della cosiddetta “seconda Repubblica”, uno indicato per quel ruolo avrebbe forse potuto e dovuto essere più rappresentativo. E per la verità Foa appare un po’ marginale rispetto ai “laboratori di punta italiani”. Per certi versi, anzi, in quanto operatore fuori dall’Italia e fuori dalla UE (cioè nella Svizzera italiana), la marginalità appare sottolineata. In più la Svizzera è un territorio fatto di qualità e di evidenze, ma anche di apparenze e di qualche mistero. Verrebbe da pensare che sia stata una scelta metaforica, “alla Conte”, per ribadire che la parte di rappresentanza può essere fatta anche da una figura non di primo piano perché nella sostanza politica ora si vorrebbe che contassero solo i Consoli a Roma.
Ma a fronte di una candidatura che avrebbe potuto essere tanto meglio quanto peggio delle apparenze parrebbe anche giusto cercare di approfondire un poco. Certo che il tweet di Marcello Foa del 27 maggio che associa al nome del presidente della Repubblica Sergio Mattarella la parola “disgusto”, resta – sulla via che avrebbe potuto portare alla presidenza di un’azienda così simbolica e rappresentativa della comunità nazionale come la RAI – un ineludibile e infelice ingombro. Ma il suo bagaglio professionale, diciamo volterianamente, non dovrebbe essere sigillato da un peccato di opinione, al netto degli esiti che la partita politica sugli equilibri della RAI sta per determinare.
A proposito della Svizzera italiana, ho insegnato per un certo tratto – prima di fare il concorso e avere cattedra di ruolo a Milano – proprio alla Facoltà di Scienze della Comunicazione di Lugano, dove anche Foa ha avuto un contratto parallelo al ruolo di manager del gruppo “Corriere del Ticino”.
Lugano è un grumo di tradizione con connessioni nel sistema globale. Né la città di Lugano né la stessa Svizzera sono realtà del tutto uniformi e le loro pieghe si comprendono anche facendo attenzione agli attori che contano nel rapporto tra le dinamiche finanziarie internazionali (l’est e i russi con crescente ruolo) e diciamo così le “antiche consorterie” (una delle quali, radicata nella massoneria locale, tiene in mano il gruppo editoriale del CdT).
Pur occupandosi più o meno della stessa agenda quotidiana dei professionisti italiani dell’informazione e della comunicazione, Foa – che è rimasto anche legato al Giornale – appare per alcuni versi eccentrico.
E per questo aiuterebbe approfondire, dove possibile, il suo “punto di vista” per capire questa eccentricità.
Ci sono elementi fasati ed elementi non pienamente fasati rispetto al ruolo per cui è stato scelto (e poi – per ora – bocciato in Commissione parlamentare di vigilanza RAI per mano dello stesso reale padrone del Giornale, Silvio Berlusconi), come “presidente della RAI”, uno dei mestieri in cui, per definizione, si dovrebbe essere ampiamente “dentro” l’agenda italiana, cioè dentro i nodi del “pensare Paese“. Chi scrive è stato due volte assistente di un presidente della RAI, nel primo caso Paolo Grassi, nel secondo Sergio Zavoli.
In questo scorcio di fine estate, a bocce ferme, la via più breve per fare la sua conoscenza è forse quella di leggere il saggio di punta della sua bibliografia, il suo libro “Gli stregoni della notizia” edito da Guerini nel 2006 e rieditato con rifacimenti nel 2018. Il sottotitolo fissa il campo di indagine: “Come si fabbrica informazione al servizio dei governi“. Che, in verità, parrebbe un sottotitolo pertinente per chi ha accettato di rappresentare e guidare una grande azienda di informazione pubblica che ha il suo principale problema nel cercare di essere più al servizio dei cittadini che al servizio dei governi.
Considerazioni
Mi limito ad alcuni spunti di lettura, qui contenuti in qualche tweet di commento.
- La qualità della scrittura è buona e professionale. Un filo monotona, ma piuttosto razionale, fondata in parte su fonti in parte sul flottante delle notizie, ispirata all’obiettivo di aggiungere elementi fino a fare emergere una trama interpretabile. Fino alla fine si attende questa “interpretazione”, quella in cui “tutto torna”, ma si scopre che l’autore non è Agatha Christie e che in un certo senso i postulati contano più delle conclusioni.
- Il campo di indagine comporta la necessità di tenere a vista – rispetto al ‘900, che è comunque l’immenso squarcio storico della ricerca – quattro verticali: il giornalismo; l’evoluzione tecnologica delle comunicazioni; la geopolitica planetaria e soprattutto atlantica; l’evoluzione della comunicazione politica.
- Questi argomenti ci sono. Ma quel campo di indagine comporta anche altre quattro piste, su cui tuttavia l’autore non si addentra molto: la guerra degli interessi economici; i caratteri strutturali della formazione della agenda setting (soprattutto in Europa); l’importanza nelle culture sociali prevalentemente cristiane del concetto di “filosofia etica” nelle dinamiche di potere; i caratteri della propaganda forgiati dal fascismo e consegnati come eredità genetica non solo all’Italia.
- In assenza di questi ultimi spettri di indagine, alla analisi di Foa mancano così alcune luci. E Il suo campo di indagine ha una evoluzione narrativa più debole. Insomma appare fragile un vero metodo scientifico nel trattamento, nel senso che prevale una forte dipendenza dall’approccio giornalistico. Tanti riquadri, spesso ben scritti e disseminati, che faticano a diventare “mappa”. Tuttavia è forte anche la vocazione ad una idea del giornalismo “smascherante” che alimenta tutta la scrittura e che, dipendendo dalle libertà sostanziali che un Paese vuole e può assicurare, resta nell’autore un principio dichiarato.
- Emerge che la cornice di maggiore interesse per l’autore non è quella – a cui sono pur dedicate molte pagine – della vicenda italiana ed europea, ma quella dell’esperienza americana che, pagina dopo pagina, assume il vero rilievo di imputato. Come a significare che, scovata la fonte della malattia (la propaganda sistemica, il cinismo degli spin doctor, la violenza sottesa nella lotta per il potere) e scovata soprattutto nel cuore dell’Impero occidentale, cioè gli USA, tutta la dinamica dell’occidente parrebbe essere più facilmente spiegabile. Cosa che un grande teorico del dubbio come Norberto Bobbio ci ha ammonito a non fare “facilmente”, quando sono in gioco così grandi differenze che riguardano il vecchio e il nuovo volto del capitalismo internazionale.
- C’è anche molta prudenza nell’autore ad indagare l’approccio britannico alla questione. Probabilmente perché partendo da lì il ritratto della solidarietà atlantica sarebbe più robusto e la prolungata azione UK contro la “disinformatia” russa sarebbe molto più alla ribalta. Ma all’autore una cosa pare stare soprattutto a cuore: dipingere le fonti del male come una moderna malattia americana (estesa a tutti i grandi attuali social-media) e forse trascurare un poco l’approfondimento dell’idea che i tre grandi laboratori della propaganda del ‘900 (il fascismo italiano, il nazismo tedesco e grandemente il sovietismo) hanno costruito i principali paradigmi della manipolazione. Dico questo senza che il testo mostri compiacenza per i regimi autoritari del ‘900.
- Un aspetto deludente – per chi ha a cuore la relazione tra politica e istituzioni intese come realtà con la loro chiara distinzione nelle democrazie liberali – è quella di analizzare la “fabbrica della propaganda” degli ambiti delle competenze istituzionali in materia di informazione e comunicazione. Alla fine il profilo professionale dell’autore prende il sopravvento e il grosso del trattamento riguarda il segmento sostanzialmente giornalistico, cioè quello dei portavoce e dei consulenti. Il che consente un contributo su un argomento su cui c’è relativamente poca letteratura (appunto quello degli spin doctor) ma lascia in ombra molti ambiti che sono certamente parte dello studio della propaganda in occidente. Ho provato a lavorare sulla materia della eredità della propaganda nei governi della democrazia occidentale, in particolare l’Italia (per esempio nel mio recente libro “Comunicazione, poteri e cittadini – Tra propaganda e partecipazione“, EGEA, 2015) e penso che tra il mio campo di analisi e quello di Foa ci siano più distinzioni che convergenze. E che sulle complementarità ci sarebbe da discutere per fare ponti possibili in queste dissimili letture.
- È condivisibile comunque l’idea dell’autore che le democrazie occidentali non hanno eliminato il rinnovarsi della cultura della propaganda. Per Foa l’eredità è pervenuta soprattutto alle società di PR, agli spin doctor e al traffico della notizia gestito dagli uffici stampa. Io penso che l’eredità corra soprattutto attraverso le ambiguità degli apparati, delle burocrazie, di certe culture giuridico-amministrative, di modelli organizzativi istituzionali, di nessi di potere tra amministrazioni e industrie strategiche nazionali e – molto – attraverso l’impoverimento culturale del ceto politico.
- La scheda iniziale dedicata a Edward Bernays, nipote di Freud, dominatore della professione delle PR nel novecento americano (nell’interesse di grandi istituzioni e grandi imprese) resta un’isoletta (trasferita da Wiki) mentre avrebbe potuto diventare una metafora più ampia se l’autore avesse scelto – anziché la serie separata dei file – l’approccio decisamente storico o l’approccio decisamente politologico (ma, per carità, essere giornalista non è una colpa). Essendo professionista con una base culturale, tuttavia, questo limite non è sprovvedutezza, ma una opzione narrativa: rendere allusivo il senso del racconto, puntando sul sentimento di vedere crescere nelle pagine il modello americano di manipolazione ormai dilagato nell’occidente (ma come tutte le narrazioni essenzialmente allusive i nessi così non risultano sempre chiari).
- L’ assenza di un trattamento della questione della manipolazione di scuola russa (che, come ho detto, è al centro oggi delle indagini e delle politiche di contrasto di quasi tutta l’Europa del Nord, inglesi in testa, con argomenti quotidiani da anni), potrebbe avere a che fare con il quadro relazionale dello stesso Foa. Ne so troppo poco, ho letto cose di riporto, a partire dai suoi soggiorni a Mosca come corrispondente del Ma la cosa colpisce. Se ci fosse qualcosa di vero, sarebbe interessante che l’autore – volendo avere un ruolo nella geopolitica italiana ed europea – dichiarasse che le sue ricerche non sono finite e che prima o poi si completeranno con studi sulle eredità in quel mondo, dal sovietismo al putinismo, su cui il giornalismo anglosassone ha già lavorato in modo interessante. Detto ciò, nell’ultimo capitolo – prima delle conclusioni – qualche riga è anche consacrata al dilagare tra tutte le potenze nel mondo di applicazioni di modelli di comunicazione manipolatoria, principalmente centrati sulle organizzazioni militari e qui un cenno al “continuismo” russo c’è (l’FSB erede del KGB e la Internet Research Agency di San Pietroburgo) con l’ ammissione che l’uso delle tecniche di guerra asimmetrica e di eserciti di troll oggi riguarda USA, Russia, Cina, Ucraina, Israele, le due Coree e la Turchia. E – aggiunge Foa – non sono immuni da queste pratiche né l’Unione Europea né il Fondo Monetario Internazionale. E qui pare chiaro che non bastano i “cenni”.
Conclusioni
Penso che Marcello Foa, che complessivamente richiama la sua storia come esponente del giornalismo conservatore borghese, potrebbe oggi appartenere al management giornalistico della Rai. Penso che nel pluralismo culturale e professionale che oggi la Rai deve continuare ad assicurare, il suo punto di vista possa rientrare in filoni di tradizione. Penso anche che il tema del “giornalismo di indagine” che lui rivendica resti un fattore pertinente nei parametri del sevizio pubblico.
Non ho acquisito da questa lettura l’idea che egli abbia tutte le carte in mano per regolare gli indirizzi aziendali ed editoriali nel modo oggi più conveniente e interessante circa i problemi reali di una grande e complessa azienda di servizio pubblico. Molti amministratori della RAI sono stati al di sotto del suo profilo, molti sono stati al di sopra del suo profilo.
La Commissione parlamentare di vigilanza non ha tuttavia lavorato sul suo profilo o sulle sue attitudini ma solo sulla formazione politica della sua candidatura che non aveva azionisti sufficienti per giustificare la maggioranza qualificata. A dimostrazione che il modello di selezione fondato sulla scelta parlamentare non ha rispettato né i candidati al CdA, che non hanno ricevuto una istruttoria di merito, né i candidati alla Presidenza della RAI che allo stesso modo hanno contato non per il loro valore ma per il consenso politico precostituito. Ecco un caso, dunque, in cui – pensando a quella Commissione parlamentare – nuovissimo e vecchissimo convergono.
Restano dunque due argomenti, che un professionista come Foa dovrebbe apprezzare e preferire.
Un diritto culturale di valutazione, che meriterebbe – soprattutto se Foa resterà in predicato per la presidenza della RAI o comunque nel gruppo dirigente della radiotelevisione di Stato – altre recensioni del testo e altri punti di vista. In nome di quel giornalismo che non compra a scatola chiusa a cui Foa stesso rivendica di appartenere. E la legittima diffidenza verso il metodo di formazione della decisione della Commissione parlamentare (su cui grava la notizia circolante che con Berlusconi la partita resti aperta al di là della conformità del candidato ma in relazione ad altre partite di giro) che non ha mai aperto un giro di tavolo trasparente sui nodi di quella conformità consentendo ai parlamentari di studiare, capire e fare emergere argomenti, pro o contro.