L’antenna Rai che troneggia sulla cima della torre Isozaki a Milano sembra un gigantesco punto interrogativo. Esattamente quello che incombe sull’azienda, dopo che un pallido consiglio di amministrazione si è rassegnato ad approvare il Piano Gubitosi sull’accorpamento delle testate.
Un Piano che si annuncia vecchio per la competitività aziendale e radicale per le suscettibilità politiche.
Ma soprattutto si conferma privo di un contesto strategico. Non a caso la motivazione forte che l’accompagna è limitata al semplice risparmio di spesa. Cento milioni all’anno non sono bruscolini.
Ma un servizio pubblico può essere solo un bancomat?
Intanto questi cento milioni andrebbero analizzati in dettaglio. Certo con i modelli di simulazione dello staff del DG, tanto al kilo, gli stessi che hanno fatto faville sul web e sulla rete 3, tutto sembra semplice: si tagliano tot vice direttori, tot capo redattori, tot inviati e il gioco è fatto. Ma pensiamo una volta che il piano andrà concretamente implementato quanti aggiustamenti per tacitare le mille delusioni: quante rubriche, quanti incarichi speciali, quanti corrispondenti in più, e soprattutto quanti trasferimenti nelle reti. I conti alla fine potrebbero essere meno squillanti.
Ma il buco nero è un altro: quale mission per questa nuova macchina dell’informazione pubblica?
Qui il silenzio è totale e il pallido dibattito nel pallido consiglio di amministrazione non ha fatto certo ballare i crocefissi.
Il primo elemento problematico riguarda proprio il referente istituzionale, il governo Renzi. Che pensa palazzo Chigi del futuro della Rai?
Oltre il raggelante slogan educational, educational, educational, mutuato da Tony Blair, che tradotto sul mercato multimediale significa: ridimensionamento, ridimensionamento, ridimensionamento, che affiora dai tramestii sulla nuova governance. Sembra di capire che l’atteggiamento dell’innercircle che sostiene Renzi sia non difficile da quanto emerso per le banche popolari, o le grandi holding pubbliche come ENEL e Finmeccanica: alleggerimento della mano pubblica.
La bussola del governo sembra tutta puntata sulla city di Londra dove chiedono di sbaraccare ogni intralcio a quella che loro chiamano liberalizzazione ma che tradotto in vernacolo è espropriazione.
L’economia italiana deve essere meno autoreferenziale, ossia meno autogovernata. Per le telecomunicazioni il ballo è appena iniziato: Rai, Telecom, Mediaset, insieme a quel garulo mucchio selvaggio che si accalca attorno alla Cassa depositi e prestiti per finanziare una connettività di quartiere, sono tutti candidati ad una forsennata internazionalizzazione.
Da questo scenario si arriva al secondo step: quale profilo attribuire all’apparato industriale della Rai?
Anche qui silenzio tombale.
Mentre nel suo piccolo la Gazzetta dello Sport, dopo aver capito che i due canali sportivi Rai non avrebbero dato alcun fastidio, si è lanciata sul mercato della TV online, confermando che ormai ogni media è un grande centro servizi che deve re-impaginare la sua relazione con ogni singolo utente, la Rai rimane implacabilmente inchiodata alla sua cultura generalista tricanale.
Se non si sblocca questo limite, diventa assurdo immaginare una fabbrica di news che possa travalicare i limiti del canale e della singola emissione. Oggi le news infatti sono uno straordinario strumento per costruire relazioni personali altamente profilate con ogni singola persona.
Bisogna saperlo fare e volerlo fare. I pallidi che dicono su questo?
Arriviamo poi al contenuto del piano.
Ne abbiamo già trattato in passato.
Oggi confermiamo che comunque si tratta di un passo in avanti rispetto alle lapidi delle attuali testate dei TG. Morti che parlano ai morti avrebbe detto Umberto Eco.
Gubitosi non si è sforzato molto.
Ha rieditato, traducendolo in linguaggio contemporaneo il vecchio piano Celli del 1999, al tempo della divisionalizzazione. Non a caso le mani che si sono prodigate sul piano sono esattamente le stesse di allora. E come dice Eistein è difficile trovare nuove soluzioni ai vecchi problemi se si adottano le culture del passato.
Il limite fondamentale del piano di oggi è che manca radicalmente una vision sulla rete. Come si fa ad immergerci nel mondo digitale, come le due news room ipotizzate devono fare, se non si ha una idea chiara ed originale di come si vuole stare nella rete?
Si punta ad un’azione di rethinking dei codici giornalistici, ripensando modelli professionali e profili operativi alla luce di una propria visione delle community social che oggi popolano la rete e producono culture di crownproduction, accorciando le distanze fra giornalisti ed utenti, trasformando i territori in piattaforme di relazioni, e dando al servizio pubblico un ruolo di impresario dei linguaggi o invece si vuole semplicemente operare un restyling dello schema redazionale accorpando quello che c’è e intensificando l’uso dei server?
Sono due indirizzi radicalmente distinti e distanti che producono, per altro, anche effetti economici e di risparmio molto diversi, per usare l’unico metro di giudizio che sembra convincere il direttore generale.
Infine la responsabilità tecnologica.
Digitalizzare una redazione, ancora di più unire più redazioni attorno ad una modello digitale significa decidere quanto e cosa va delegato ai sistemi automatici di ricerca e di relazione online. Quanto e cosa. In sostanza significa decidere a quali algoritmi delegare la velocità operativa del sistema di informazione realtime, e di conseguenza assumere una logica e un linguaggio discriminante.
Cosa ha deciso il pallido consiglio di amministrazione?
Che facciamo appaltiamo tutto a Google o a Avid?
Ossia la più grande azienda culturale italiana decide di adottare un modello di outsourcing semantico che espropri la cultura nazionale performandola secondo categorie e stilemi tutti dedotti da algoritmi importati?
Questo è il vero buco nero.
Può un servizio pubblico della comunicazione non assicurare al proprio paese autonomia e sovranità nella selezione, elaborazione e implementazione delle forme di intelligenza artificiale che progressivamente guideranno il lavoro delle redazioni?
Anche qui il silenzio è religioso.
Infatti mancando una riflessione sui patrimoni tecnologici e semantici che l’azienda dovrebbe tutelare manca anche un’idea di primato che viene fissata per la propria informazione: la Rai cosa vuole essere nella gerarchia delle fonti del paese?
Dove vuole assolutamente vincere?
In cosa si candida ad essere la fonte primaria e valorizzante?
Nell’informazione istituzionale, nel locale, nell’economia, nella cultura?
Insomma come si costruisce una propria presenza sul mercato?
Non trovo indizi neanche per questa domanda.
Ora ricapitolando, in un paese in cui il governo mira ad alleggerire ogni apparato pubblico, dove le dinamiche del mercato spingono verso forme di internazionalizzazione passiva, dove il gruppo dirigente dell’azienda pubblica radiotelevisiva manca di ogni personalità istituzionale di manageriale e infine dove si procede ad una radicale quanto indispensabile riforma dell’informazione solo per sperare di risparmiare qualche lira che speranza può lasciare?
Su questa domanda un indizio c’è. Anzi due, ossia una prova.