Una attenta e serena analisi delle notizie di “politica culturale” dell’ultima settimana porta ad una conclusione che tante volte abbiamo manifestato – anche su queste colonne – e con insistenza: il sistema culturale italiano, nonostante la sua infinita ricchezza e diffuso policentrismo, non ha una “regia” politica, né può averla, a causa della perdurante grande assenza di una “cassetta degli attrezzi” (dati e strumenti di misurazione).
Il Ministro della Cultura “pro tempore” si trova a dover “governare” il sistema senza poter disporre della strumentazione necessaria: se nel lontano 1985, il Ministro socialista della Spettacolo il compianto Lelio Lagorio, nella cosiddetta “Legge Madre” sullo spettacolo, ebbe la lungimirante idea di inserire la costruzione di un “Osservatorio” ministeriale, questo strumento è stato presto destrutturato, depotenziato, definanziato, al punto tale da renderlo ormai una scatola vuota…
Ad oggi, il Ministero della Cultura italiano non dispone di un ufficio studi, né di una struttura di analisi tecnica, né di pianificazione strategica.
Governa quindi inerzialmente, senza alcuna chance di innovazione basata su logiche “evidence-based policy making”.
Un esempio concreto, di questi giorni, tra i tanti possibili?
Oggi sul quotidiano “Corriere della Sera”, in un articolo di Laura Martellini, il noto regista Carlo Verdone lancia un appello accorato al Ministro Gennaro Sangiuliano, affinché si trovi un sistema per ridurre la moria di sale teatrali che sta colpendo anche la Capitale.
Il Presidente dell’Agis Francesco Giambrone (che è anche Sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma) concorda e ricorda che lui stesso ha promosso, oltre quindici anni fa, un censimento degli spazi teatrali chiusi: “nel 2008 io stesso censii le sale chiuse, all’epoca erano in Italia 438. Ora l’allarme si ripresenta. Troppi palcoscenici in pandemia sono spariti. Con la Siae, abbiamo lanciato 15 giorni fa una nuova conta regione per regione…”.
Francamente, stupisce che il Presidente dell’Agis sostenga che… “ora” l’allarme si… ripresenti, dato che la desertificazione culturale del nostro Paese è un fenomeno almeno ventennale, soprattutto nel Meridione, più in provincia, ma anche nelle metropoli…
Ma ci rendiamo conto?! Non è soltanto l’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo o la Società Italiana degli Autori e Editori a non disporre di una mappatura accurata ed aggiornata dei luoghi dell’offerta culturale in Italia, ma lo stesso Ministero.
Ed il problema si ripropone – come abbiamo segnalato tante volte sulle colonne di “Key4biz” – per le librerie o per le edicole.
Come si può (ben) governare, a fronte di un simile deficit cognitivo?
Il Ministro Gennaro Sangiuliano: “1 cinema e 1 teatro in ogni Comune d’Italia”. Ma lo stesso Ministero non dispone di una mappatura dell’offerta dei luoghi culturali
Eppure il Ministro Gennaro Sangiuliano, in molte occasioni, ha ribadito che riterrebbero giusto e sano che ci fosse un cinematografo ed un teatro in ogni Comune d’Italia. Da ultimo, lunedì scorso 30 ottobre in occasione della presentazione del XIV “Rapporto annuale” di Civita a Roma: “penso che ogni Comune, anche il più piccolo, abbia diritto ad avere una qualità della vita connessa con la cultura, quindi ogni comunità deve avere un teatro, una sala cinematografica”.
Il titolare del Collegio Romano ha perfettamente ragione: peccato che nessuno sia in grado in Italia di fornire una “mappatura” accurata completa aggiornata dei luoghi dell’offerta culturale.
Il “sistema informativo” della cultura italiana è infatti povero assai, anzi sostanzialmente inesistente: basta sfogliare le uniche fonti di dati ed analisi reperibili – che sono rappresentate di fatto soltanto dal rapporto annuale di Federculture e dal rapporto annuale di Symbola – che propongono dati lacunosi, frammentari, privi di validazione metodologiche.
Conseguenze?
Numeri spesso in libertà, dati fantasiosi che vengono di volta in volta rilanciati da giornalisti non particolarmente attenti.
Col politico di turno che li cavalca di volta in volta, producendo talvolta anche fuochi d’artificio…
Stime di fatturati, stime di forza-lavoro, stime di “moltiplicatori” basate su metodiche fragili…
Prevale approssimazione nelle analisi e quindi nasometria nel governo
Anche quando si iniettano nel sistema risorse pubbliche in quantità consistenti, non ci si attrezza con strumenti di valutazione e controllo: eclatante il caso del “tax credit” a favore del settore cinematografico e audiovisivo… A distanza di otto anni dalla “Legge Franceschini” del 2016, improvvisamente negli ultimi mesi “qualcuno” (anche la maggiore lobby del settore, i produttori dell’Anica, i principali beneficiari della norma) si è finalmente reso conto che ci sono profonde e gravi patologie nell’assegnazione delle risorse: una fenomenologia che ha tra l’altro prodotto una incredibile sovrapproduzione di film che non vengono distribuiti né in sala né trasmessi in tv né offerti dalle piattaforme… Si tratta di un fondo che amministra ormai circa 750 milioni di euro l’anno di danaro pubblico, senza che nemmeno il Ministero sappia esattamente che effetti provoca realmente nel settore. Fatto salvo poi improvvisamente scoprire che la quota di mercato dei film italiani nelle sale cinematografiche è ormai a livelli penosi… Nonostante ciò, ancora ieri il Presidente dell’Anec (l’associazione degli esercenti) Mario Lorini rinnovava entusiasmi sul magnifico andamento del “box office” italiano: mercoledì 1° novembre 2023 gli incassi dei cinematografi evidenziavano un +99 % rispetto al 2022, ma si omette di osservare che si resta ancora a -27 % rispetto alla media del triennio 2017-2019 (fonte Cinetel). Ancora una volta l’ottimismo (ostinato) della volontà che cozza con la vera verità (amara) dei dati.
La patologia che definiamo da alcuni anni “deficit cognitivo” (utilizzando l’espressione oltre l’abituale uso nel linguaggio psicologico) o anche “no data”, è diffusa ed attraversa tutti (o quasi) i segmenti del sistema culturale italiano, e tutte le fasi delle varie filiere delle industrie culturali e creative.
Un altro esempio?
I lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche in sciopero… Ma lo Stato deve garantire la sopravvivenza dell’esistente o stimolare “audience development”?
La situazione delle fondazioni lirico-sinfoniche, che in Italia non sono state oggetto di approfonditi studi ed analisi, soprattutto rispetto al rapporto tra “offerta” e “domanda”: costano tanto allo Stato (192 milioni di euro l’anno, e considerando soltanto l’intervento del Ministero della Cultura), la loro offerta è a favore di un pubblico assolutamente elitario, anche perché non sono mai state messe in atto politiche di “pricing” finalizzate ad estendere la platea dei fruitori (né la stessa Rai ha mai promosso adeguatamente la cultura lirica)… Le fondazioni danno lavoro – senza dubbio – a migliaia di artisti e professionisti: circa 3.800…
Allorquando il Ministro Sangiuliano annuncia dei (piccoli) “tagli” al tax-credit cinematografico e audiovisivo (un ridimensionamento del Fondo Cinema e Audiovisivo di 50 milioni di euro sul totale di 750 milioni), i sindacati insorgono: “la priorità, piuttosto – ha sostenuto Sabina Di Marco, Segretaria Nazionale del Sindacato Lavoratori della Comunicazione (Slc) della Cgil – è distribuire le risorse necessarie ai rinnovi dei contratti di lavoro”, da oltre vent’anni bloccati sia nel cine-audiovisivo (cinema, serie tv), sia nello spettacolo dal vivo. I lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche sono in lotta per il rinnovo del contratto collettivo nazionale scaduto da circa venti anni, e lamentano un’erosione del loro potere d’acquisto di quasi il 40 %… I lavoratori delle fondazioni hanno annunciato nelle scorse settimane un percorso di mobilitazione importante, iniziato il 21 ottobre con lo sciopero al Teatro Regio di Torino, dove la prima della “Bohème” non è andata in scena, e proseguito con i palcoscenici andati deserti al San Carlo di Napoli, al Massimo di Palermo e all’Opera di Roma… Il sindacato deve fare il suo lavoro, ovviamente, ovvero tutelare i lavoratori, ed i lavoratori degli enti lirico-sinfonici sono tra i pochi a non essere stati ancora travolti dalle sempre più diffuse dinamiche di precariato che riguardano gran parte delle industrie culturali e creative italiane (ricordiamo ancora una volta le battaglie dei lavoratori dei beni culturali, ben denunciate dall’associazione “Mi riconosci?”).
Il Sottosegretario delegato Gianmarco Mazzi (peraltro già manager all’Arena di Verona) accusa i lavoratori stessi di “colpire il pubblico più appassionato”, di “trasmettere un senso di inaffidabilità dell’intero settore” e di “complicare la possibilità di attrarre in futuro sponsor privati”.
Il Sottosegretario non sembra però porsi un quesito essenziale (di politica culturale): quale deve essere il ruolo dello Stato in questo settore del sistema culturale nazionale?
Garantire la sopravvivenza dell’esistente o stimolare “audience development”? Ovvero stimolare quella parte della popolazione italiana (ed in particolare dei giovani) che non ha mai messo piede in un teatro lirico… ad entrarci?!
Ha ben scritto Paolo Martini sul suo blog su “il Fatto Quotidiano” di martedì scorso 31 ottobre, rispetto alla “staffilata” del Sottosegretario: “una bella staffilata, non c’è che dire, peccato che andrebbe rivolta non tanto ai coristi e agli orchestrali ma ai sovrintendenti, alle strutture di controllo e ai poteri vari che si muovono dietro questo colossale giro di soldi e di pseudo-mondanità. Prima di tutto andrebbe ridefinita la funzione pubblica di questi grandi teatri, che non sono e non possono essere soltanto una costosissima leva per attrarre i turisti più abbienti”. E conclude: “il nodo da sciogliere non è quello di redistribuire i finanziamenti tra le istituzioni, ridurle o introdurne di nuove con la scusa degli scioperi e della malagestione, ma è proprio questo d’interrompere una politica miope che ha penalizzato il teatro di ricerca e le compagnie, per liberare dal giogo della burocrazia e della penuria le vere risorse artistiche, che sono le persone di talento, e far ripartire un settore che così potrebbe riscoprire la sua stessa funzione pubblica”.
300 documentaristi chiedono al Ministro della Cultura una “redistribuzione dei fondi della cultura”
E che dire, ancora – per fare riferimento a segnali di agitazione degli ultimi giorni – della “lettera aperta” che oltre 300 documentaristi italiani hanno indirizzato al Ministro della Cultura, chiedendo “una redistribuzione dei fondi della cultura con una specifica sezione del ministero dedicata al documentario”.
È un concetto veramente essenziale questo: redistribuzione dei fondi. Ovvero riallocazione delle risorse pubbliche.
Una riallocazione che sia il risultato di un’analisi seria dell’attuale assetto dell’“offerta” e della “domanda”. E del ruolo dello Stato nel sistema culturale.
Come abbiamo già domandato retoricamente su queste colonne: qual è il senso di 750 milioni di euro l’anno di fondi del Mic a favore di cinema ed audiovisivo (con la bilancia peraltro squilibrata a favore dell’audiovisivo non cinematografico), a fronte di soltanto 420 milioni di euro di fondi del Mic per tutto il settore dello spettacolo dal vivo (teatro, musica, lirica, danza, circhi e spettacolo viaggiante)?
È interessante rilanciare le tesi dei 300 documentaristi: “desideriamo evidenziare come, negli ultimi anni, il Ministero della Cultura abbia favorito in modo marcato il cinema di finzione, sia in termini di contributi selettivi, sia per quanto riguarda il Tax Credit, nel quale il documentario ha ottenuto soltanto il 6 % nel 2022. Parallelamente, il nuovo Contratto di Servizio della Rai per il 2023-2028 non ha finora definito un ruolo specifico e chiaro per il documentario, rischiando di escluderlo completamente dalle future produzioni e diffusioni per i prossimi 5 anni”.
La Rai – va ricordato – dedica poca attenzione e poche risorse al documentario: basti pensare che ha istituito una Direzione Documentari soltanto nel 2020, affidandola ad un professionista serio e giornalista appassionato come Duilio Gianmaria, che è stato poi killerato sul campo, a causa delle solite logiche partitocratiche tipiche della tv pubblica italiana (vedi “Key4biz” del 17 dicembre 2021, “Rai, l’inspiegabile rimozione di D. Giammaria da Direzione Documentari. Il pacchetto di nomine”).
Continuano i firmatari della protesta: “molti colleghi, dirigenti e responsabili politici al di fuori della comunità dei documentari non sono a conoscenza della crisi in corso. L’idea di un’età d’oro del documentario è un mito alimentato dalle piattaforme streaming. Queste tendono a focalizzarsi però su temi popolari come il crimine o le celebrità, spesso attraverso case di produzione con legami stranieri che, è importante notare, hanno ampio accesso ai finanziamenti pubblici. L’essenza del documentario indipendente, che si concentra su temi sociali, culturali e politici cruciali, rischia di essere soffocata. La situazione per i documentaristi indipendenti è preoccupante: i fondi per lo sviluppo, la produzione e la distribuzione sono praticamente inesistenti per il documentario, rendendo quasi impossibile sostenere una professione in questo campo”.
Esiste forse uno studio, una ricerca, una indagine, che possa confermare con dati alla mano ed analisi oggettive questa attuale situazione?! No.
L’ultimo studio sui documentari in Italia risale al… 2006: si tratta dell’“Indagine sul settore del documentario in Italia”, realizzata da IsICult su incarico dell’associazione Doc/It.
Un andamento lasco e “mediterraneo” ovvero il “no data” è sempre funzionale al mantenimento dello “status quo”
E che dire del concetto di “produttore indipendente”, che in Italia è andato via via sfumando, per progressivo disinteresse dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom)? E che dire delle quote obbligatorie di trasmissione e produzione a carico delle emittenti televisive? Anche questo tema è divenuto evanescente, in assenza di un “sistema informativo” adeguato, ovvero di verifiche e controlli accurati da parte dell’Agcom…
Un andamento lasco e “mediterraneo” è sempre funzionale al mantenimento dello “status quo”.
Come abbiamo scritto tante volte: meno dati si hanno, più il Manovratore è libero di agire indisturbato.
Potremmo continuare per pagine e pagine: e d’altronde questa rubrica “ilprincipenudo” curata dall’ Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult per questo quotidiano online “Key4biz”, che veleggia ormai sulle 750 edizioni, è nata, una decina di anni fa (nel 2015), anche proprio per denunciare il “deficit cognitivo” del sistema culturale…
Deficit cognitivo che s’è andato col tempo paradossalmente aggravando… Migliaia di pagine di nostre analisi lo dimostrano inequivocabilmente.
Riduzione del canone Rai e crescente incertezza del servizio pubblico italiano
Le dinamiche “micro” si intrecciano e si riproducono a livello “macro”: qualcuno ha forse provato, nella fase di gestazione del novello “contratto di servizio” (per il quinquennio 2024-2028) tra Ministero delle Imprese e del Made in Italy e Rai Radiotelevisione Italiana spa a quantificare “doveri” e “diritti” dell’emittente di servizio pubblico mediale?! No.
Ancora, una volta si tratta di un “contratto” per modo di dire, perché le “prestazioni” sono definite in modo generico e le “controprestazioni” non sono quantificate (assenza di un sinallagma significativo, potrebbe commentare un giurista): una sorta di “libro dei sogni” (espressione peraltro utilizzata qualche mese fa anche dall’ex Presidente della Rai Roberto Zaccaria, che ha improvvisamente scoperto dinamiche di cui pure è stato corresponsabile), che si rinnova. Sul tema, si rimanda a “Key4biz” del 3 ottobre 2023, “Contratto di servizio Rai: oggi la giornata decisiva?”.
E quindi cosa accade quando… “qualcuno” improvvisamente decide – sulla base di un conato di demagogia populista – che il canone Rai debba essere ridotto da 90 a 70 euro l’anno (come avverrà con la Legge di Bilancio 2024 in gestazione)?
Che si “scopre” che la Rai perderà parte significativa delle proprie risorse, ed allora si pensa di compensare la perdita con un finanziamento diretto attinto al bilancio dello Stato per un triennio, o magari di innalzare le chance di affollamento pubblicitario…
Senza che queste decisioni siano inserite in una “logica di sistema” o in una “strategia di servizio pubblico”…
Il sostegno diretto dello Stato a compensazione del minor ricavo causato dalla riduzione del canone, durante l’iter, sembra poi passare da tre anni ad un anno soltanto, ignorando le esigenze di stabilità di un’impresa di simili dimensioni (e facendo peraltro finta di non ricordare che il “contratto di servizio” ha durata quinquennale)… Si “gioca” col servizio pubblico radiotelevisivo, tanto nessuno sembra in grado di opporre dati ed analisi ai ghiribizzi erratici della “politica”: così si contribuisce a rinnovare la sudditanza della Rai nei confronti della partitocrazia, alla faccia di autonomia ed indipendenza… Peraltro, a sua volta, Viale Mazzini si tiene ben stretti – nelle ovattate stanze del settimo piano – i dati sugli appalti milionari per trasmissioni che potrebbero essere ben realizzate utilizzando al meglio il potenziale interno dell’azienda… Operano su più fronti, i fautori della conservazione.
E che dire dei 300 milioni di euro del “Pnrr” che lo Stato italiano ha deciso di assegnare a Cinecittà, senza studi di scenario e con una quantificazione improvvisata? Ed ora qualcuno improvvisamente si sta ponendo “domande” anche sul senso di questo investimento, esattamente come si è destato dal torpore per il “tax credit”… A proposito, su Cinecittà, qualcuno, dopo di noi, ha finalmente dedicato attenzione al conflitto di interessi incarnato da Chiara Sbarigia, che guida sia gli “studios” di via Tuscolana sia l’Associazione dei Produttori Audiovisivi (Apa), con la benedizione della Sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni (di cui è peraltro prima consigliera): si rimanda all’articolo di Stefano Iannaccone, sul quotidiano “Domani” di lunedì scorso 30 ottobre, “Matrimoni e Borgonzoni: a Cinecittà riflettori accesi su Sbarigia” (nell’edizione di oggi, il quotidiano diretto Emiliano Fittipaldi pubblica alcune non granché significative precisazioni di Sbarigia).
Lentamente, alcune ulteriori contraddizioni interne del sistema culturale italico vengono alla luce.
Il grido del ‘teatro sociale’
Qualche giorno fa è emerso il grido di lamento degli operatori del “teatro sociale”: si tratta di oltre 4mila professionisti, di oltre 400 compagnie teatrali ed associazioni del Terzo Settore, la cui attività è sostanzialmente ignorata dallo stesso Ministero della Cultura, che assegna poco più di 400mila euro di contributi l’anno ad una eletta schiera di soggetti – meno di una decina – ignorando completamente tutti gli altri (vedi “Key4biz” di martedì scorso 31 ottobre 2023, “Il ‘teatro sociale’ richiede riconoscimento giuridico e sostegno istituzionale”)…
Si noti: sono più importanti – per il “welfare” nazionale (tra dimensione culturale e dimensione sociale) – i circa 4.000 dipendenti (a tempo indeterminato) delle fondazioni lirico-sinfoniche oppure i 4.000 lavoratori (per lo più precari) del teatro sociale?!
Questa sì è una domanda di “politica culturale” alta.
Comunque, usando una raffinata espressione del dialetto romanesco: “’ndo cojo, cojo”, non c’è bisogno di scegliere, tutti o quasi i territori del sistema culturale italiano sono privi di strumenti di autocoscienza.
Ognuno porta acqua al proprio mulino, ma non sulla base di dataset tecnici bensì di pulsioni emotive e di tensioni lobbistiche.
E sulla punta della piramide, il Ministro…
Il Ministro: che ascolta una pluralità confusa di postulazioni e dovrebbe assumere scelte politiche radicali (non piccole correzioni di rotta), se volesse veramente innovare rispetto al suo predecessore, il più longevo ministro della cultura della Repubblica, il “dem” Dario Franceschini.
Ma, volontà a parte, Gennaro Sangiuliano (esattamente come Dario Franceschini) non dispone di una “cassetta degli attrezzi” minimamente adeguata alle esigenze di una politica culturale moderna.
Non può che opporre, alla fin fine, la sua nasometria alla nasometria del predecessore.
Non è una bella prospettiva, per chi ancora crede nella lezione di Luigi Einaudi del “conoscere per governare”.
E peraltro il sistema dei media “mainstream” non aiuta certo a stimolare una… coscienza di sistema, se il dibattito si accende soltanto per la nuova edizione della trasmissione di Beppe Fiorello “Viva Rai2!”, o per il brano – in fondo banale assai – di Colapesce e Dimartino “Ragazzo di destra”, o, ancora, per le insensate polemiche nei confronti di un Ministero che promuove la conferenza stampa (mercoledì prossimo 8 novembre al Collegio Romano) di presentazione della mostra “Tolkien. Uomo, Professore, Autore”, che sarà inaugurata il 15 novembre, a Roma, alla Gnam – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea…
“No data” istituzionali e stereotipi mediali dominano la scena…
[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ](*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.