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Quando la Olivetti fece scuola alla Silicon Valley

Chi l’avrebbe mai detto che un manipolo di ingegneri in camicia a maniche corte, nascosti tra i muri sobri di Ivrea, avrebbe messo in crisi i giganti della Silicon Valley prima ancora che nascessero? Ma così andò. In un’Italia che arrancava ancora tra le macerie del dopoguerra e i sogni della ricostruzione, Pier Giorgio Perotto e i suoi giovani — Giovanni De Sandre, Giuliano Gaiti, Gastone Garziera, Giancarlo Toppi — tirarono fuori dal cappello non un coniglio, ma una macchina. Non un calcolatore da laboratorio, ma un cervello da tavolo, un personal computer ante litteram: la Olivetti Programma 101.

Nel 1965, mentre nel mondo si respirava l’aria pesante della Guerra Fredda, e in America i mainframe IBM occupavano stanze intere, Olivetti tirò fuori una macchina grande quanto una macchina da scrivere. Ma dentro, ci stava l’embrione del futuro. Bastava un foglio di carta magnetica, e la Programma 101 eseguiva calcoli, memorizzava dati, risolveva problemi. La NASA ne acquistò alcune per lo sbarco dell’Apollo 11: non è retorica, è realtà. L’Italia contribuì allo sbarco sulla Luna con una macchina costruita a Ivrea.

Una città-fabbrica che respirava l’umanesimo industriale, non i profitti. Dove Adriano Olivetti aveva insegnato che il lavoro doveva servire l’uomo, non viceversa. E dove un’idea – solo un’idea, ma dannatamente buona – poteva sfidare la logica dei colossi d’oltreoceano.

La P101 non si limitò a “esistere”. Spaccò il mercato, seppur con la discrezione tipica italiana: 44.000 unità vendute, quasi tutte all’estero. Costava quanto un’utilitaria, ma era un motore di pensiero. Chi ci lavorava la chiamava “Perottina”, con un affetto da officina artigiana, ma chi la comprava sapeva di avere in mano qualcosa che sarebbe entrato nella storia.

In un mondo che cominciava a parlare di circuiti integrati, di moduli logici, di automazione, la P101 rappresentava la semplicità geniale, l’intuizione pura. “Una Ferrari nascosta sotto il cofano di una 500,” disse qualcuno a Stanford anni dopo. Il paradosso: il primo computer “personale” non venne dagli Stati Uniti, ma da un’Italia che credeva ancora nella cultura politecnica e nell’industria come missione civile.

Ma come spesso accade nel Bel Paese, ciò che nasce col genio finisce nei faldoni della burocrazia o negli scatoloni della memoria. La Olivetti, già colpita dalla scomparsa improvvisa di Adriano e poi di Mario Tchou, non seppe (o non volle) difendere la sua creatura. La Programma 101 rimase una splendida meteora, mentre altri — negli USA, in Giappone — capirono la lezione e ci costruirono sopra imperi.

Eppure, l’impatto fu enorme. Steve Wozniak, il co-fondatore di Apple, dichiarò anni dopo di essersi ispirato al modello della P101. E in fondo, ogni PC, ogni laptop, ogni smartphone, porta con sé un pezzetto di quella visione: l’idea che la tecnologia non sia solo per scienziati in camice bianco, ma per persone comuni, sulla loro scrivania, nella loro vita.

Così, caro lettore, mentre scorri le notifiche sul tuo telefono o mandi un’email da un computer portatile che pesa meno di un chilo, ricorda che c’è stato un tempo in cui tutto questo è cominciato con una macchina nata in provincia, tra i monti del Canavese, lontano dai riflettori ma vicino al cuore dell’ingegno umano.

Non c’era bisogno di Silicon Valley. Bastavano un’idea buona, una comunità che crede nel lavoro, e una fabbrica che sapeva mettere insieme tecnica, bellezza e giustizia.

Questo, oggi, è un monito. Perché se lo abbiamo fatto una volta, possiamo rifarlo. Ma serve crederci. Servono visionari. E serve non dimenticare.

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