Incontrai Michail Gorbaciov nell’inverno del 1989. Facevo parte, insieme ad Antonio Rubbi e Giuseppe Boffa, della delegazione del Pci guidata da Achille Occhetto che incontrò quella del Pcus capeggiata appunto da Gorbaciov. Ne ho scritto 20 anni fa nel mio Post[1]. E riprendo da lì alcune mie impressioni perché non avrei davvero nulla da mutare.
“A quel tempo le sue (di Gorbaciov) proposte di politica internazionale avevano come principale interlocutore l’Europa. Poi egli cambiò in favore degli Usa, e non credo che la cosa gli abbia giovato. Allora, all’inizio dell’89, la sua preoccupazione principale era quella di fugare le diffidenze degli americani, canadesi e inglesi per il progetto di Casa comune europea… Quel che ho sempre pensato, da quell’incontro in poi, è che la caduta dell’Urss ha lasciato vacante un ruolo geopoliticamente essenziale. Un ruolo di cerniera più che di capofila dell’Urss tra Occidente e blocco del “Terzo mondo”.
Per i suoi rapporti con la Cina, col mondo islamico e africano ma anche per quelli con l’India e col resto del mondo asiatico. Un ruolo di cerniera non solo geopolitico, non solo militare, ma di cultura, di civiltà, antropologico.
Tutti, ora, dobbiamo stare bene attenti a come riempire questo vuoto. Auguri a Vladimir Putin, comunque. Qui il discorso porta all’impianto universalistico del disegno di Gorbaciov. Alla sua quasi ossessiva attenzione per i problemi globali: l’ambiente, la demografia e la fame, lo sviluppo economico mondiale, e al suo vero sogno: l’interdipendenza come globalizzazione politica, guidata dalla politica. Questo, per lui, era il socialismo nell’epoca attuale. Il mito della classe operaia, la conquista del potere erano per lui cose del passato. Lo stalinismo l’orribile fantasma da cui liberarsi. Mancava però qualcosa, qualcosa di importante nel suo disegno. Quando si affrontò la riforma economica, parlò soprattutto di cooperative (una suggestione che gli veniva dal suo vecchio amico cecoslovacco Zdenek Mlynar). E io pensai: ma come si possono illudere? Non vedono come è ridotta la società civile sovietica? Già Antonio Gramsci diceva che in Russia la società civile non esisteva, e lo stalinismo negli anni ha cosparso solo sale. Qui ci vorrebbe un dirigismo tecnocratico con management occidentale o addestrato in Occidente, un grande colbertismo russo, altro che cooperative!”[2].
Tornai a Mosca due anni dopo per parlare col segretario di Gorbaciov, lo storico Anatoly Sergeevich Chernyaev, ed ebbi conferma, purtroppo, delle mie prime impressioni.
Ho riportato le mie riflessioni così a lungo perché sono più prossime agli eventi e soprattutto perché non avrei molto da aggiungere o da cambiare.
Michail Sergeevic Gorbaciov è stato un uomo estremamente empatico, lungimirante ed entusiasta. Forse un po’ ingenuo. La sua grande idea era quella dell’interdipendenza che dava tutt’altro significato alla prospettiva socialista, e il suo sogno era quello della Casa comune europea che non doveva essere contro gli anglosassoni ma anzi avrebbe dovuto includerli in una architettura di sicurezza mondiale.
Un disegno universalistico, ben diverso da un disegno imperialistico.
In tale disegno trovava senso e respiro, anche, la svolta di Achille Occhetto e l’idea di una nuova formazione politica in grado di andare oltre le vecchie tradizioni del movimento europeo proponendo ad esse una casa nuova e un percorso comune.
Gorbaciov si trovò però di fronte un certo cinismo americano e la solita ignavia europea. Helmuth Kohl del resto pensava solo alla riunificazione. Francois Mitterrand alla casa comune e a una confederazione europea ci credeva, ma forse non abbastanza o forse si sentiva solo. Gorbaciov ebbe in questa partita una grande sponda in Giovanni Paolo II che coltivava lo stesso disegno di casa comune europea come volano del futuro, l’Europa a due polmoni, come egli stesso diceva. Ricordo che a fine incontro al Cremlino ricevetti una lettera sigillata da trasmettere a Agostino Casaroli via Alceste Santini.
Ma il punto debole, come scrivevo allora, era la confusa prospettiva della perestrojka economica. Su questo tutto il suo disegno si insabbiò.
Malumore popolare da una parte e soprattutto un terremoto in tutti i gruppi dirigenti, sovietici e dei Paesi satelliti; e disagio nello stesso gruppo dirigente cinese.
Al loro interno infatti si aprì la partita maledetta tra i conservatori che vedevano nel gorbaciovismo i rischi dell’avventura e i rinnovatori che premevano sull’acceleratore puntando sulla deflagrazione e sul poter ereditare il potere dalle ceneri. Già nell’89 i moti di Piazza Tien an Men e le vicende romene, le più gravi tra quelle di tutti i paesi dell’Europa dell’Est, furono dei campanelli d’allarme o meglio delle sirene.
Avvenne poi la caduta del Muro di Berlino. Credo che poco dopo, sarebbe interessante ricostruirlo, gli americani cominciarono a pensare di cambiare cavallo. E forse non fu allora un caso che nei paesi baltici, segnatamente in Lettonia, vi furono nel 1991 i moti per l’indipendenza che videro l’opposizione di Gorbaciov. Egli aveva definito un trattato per fare dell’Urss una confederazione o qualcosa del genere, così come, ne ebbi documentazione personalmente, stava lavorando a una profonda riforma in senso federale del Pcus; ma non poteva accettare che tutto ciò passasse attraverso l’esplosione dello Stato sovietico.
Si arrivò così allo strano golpe organizzato da Vladimir Aleksandrovič Kriuschkov, capo del Kgb e in fondo fratello maggiore di Gorbaciov, essendo entrambi delfini di Jurij Vladimirovič Andropov e il primo anche suo successore. Al golpe seguì l’incoronazione di Eltsin e la strettamente connessa dissoluzione dell’Urss.
Sono convinto che già In Lettonia la Nato avesse dato il là al primo rullìo di tamburi che porterà alla presenza in quasi tutti i Paesi ex Urss, sino alle tragiche vicende ucraine di questi giorni. Boris Eltsin, in cambio della leadership, consentì e garantì tutto ciò, oltre a una liberalizzazione selvaggia e incivile della società e dell’economia russa. Gli americani non potranno mai essergli grati abbastanza.
Il grande sogno di Gorbaciov e di Giovanni Paolo II finì con ciò nei cassetti della storia.
Al suo posto furoreggiò l’unipolarismo statunitense interpretato da Bill Clinton, uno dei più luccicanti, e meno lungimiranti presidenti della storia americana.
In ciò, si può dire ex post, Gorbaciov si rivelò ingenuo e si espose troppo. Forse avrebbe dovuto procrastinare nel tempo i suoi progetti riformisti soprattutto in economia, e seguire di più un modello di sviluppo del mercato guidato dallo Stato, come del resto è stato fatto in Cina.
Ma al di là di tali congetture retrospettive, la fine del disegno di casa comune europea e di sicurezza globale non è rimasto senza conseguenze. E i nodi non sciolti allora vengono ironicamente al pettine oggi.
Dopo aver a lungo covato risentimento per l’umiliazione patita e per le crescenti pressioni militari della Nato, la Russia ha gettato il dado della guerra in Ucraina mentre cresce la tensione strutturale Usa-Cina. La casa comune europea rischia di diventare l’inferno europeo; la sicurezza comune ancora vagheggiata, alquanto velleitariamente, da George Walker Bush e da Vladimir Putin a Pratica di Mare nel gennaio 2010, sembra diventare nuova guerra fredda. Di fronte a tutto ciò davvero nessuno può cantare vittoria.
E in fondo che Michail Sergeevic Gorbaciov abbia deciso di andarsene ora reca forse un significato. Ha deciso di divenire il fantasma di Banquo (nel Macbeth di William Shakespeare), che indica tutto il bene che non è stato fatto e smaschera tutto il male che per brama di potere è stato così a lungo commesso.
Orvieto, 31 agosto 2022
[1]Massimo De Angelis, Post. Confessioni di un ex comunista, Milano, Guerini e Associati, 2003, 207 p.
[2] Massimo De Angelis, Post. Confessioni di un ex comunista, op. cit. alla nota 1, pp. 57-58.