Questa mattina, al Cinema Adriano di Roma, gustosa anteprima e stimolante conferenza stampa per il nuovo film del Maestro Pupi Avati, “Il Signor Diavolo”, una produzione RaiCinema e DueA Film, atteso rientro dell’autore bolognese alla regia di un’opera destinata – come s’usava dire un tempo – alla prioritaria circolazione cinematografica.
L’occasione è stata ghiotta, sia dal punto di vista estetologico (da cinefili) sia dal punto di vista politico (intesa come “politica cinematografica”): abbiamo assistito alla proiezione di un film di qualità, che senza dubbio può essere definito d’autore (finanche d’Autore), certamente corrispondente a quel desiderio di Avati di riconoscibilità (“volevo che, dalle inquadrature, dalla luce, dalle location, dai dettagli… si riconoscesse la mia cifra stilistica”), ed è stata anche un’occasione per una riflessione critica sullo stato di salute del nostro cinema.
Prima di entrare nel merito dell’opera, va segnalato la grande capacità di Avati di porsi come affabulatore: ha scherzato sulla pessima scelta di RaiCinema di organizzare una conferenza stampa in una sala cinematografica dalle luci soffuse e quindi spettrali… ha salutato con cordialità alcuni giornalisti cinematografici, sostenendo che la maggior parte non li conosceva, dato che non gli è stato consentito, ormai da molti anni, di fare film per il cinema… ha manifestato una gran bella energia ed un equilibrato pacato entusiasmo… per la vita, prima che per il cinema! Classe 1938, si ricorda en passant.
In effetti, questa de “Il Signor Diavolo” è una sortita cinematografica che viene a distanza di anni dall’ultima opera “theatrical” di Avati, qual è stata “Un ragazzo d’oro”, che risale al 2013, e… “non è stato un gran successo”, ha commentato Antonio Avati, fratello del regista e titolare della DueA Film.
E qui si passa dall’estetologico al politico, dal semiotico all’economico (come ci piace dire).
Avati ha sostenuto che in Italia il “cinema di genere” è stato troppo sottovalutato, e quindi poco esplorato e poco praticato, nel corso degli ultimi decenni, allorquando poteva (potrebbe) essere uno dei filoni più vitali del nostro immaginario audiovisivo: basti pensare ad un genio come Sergio Leone, che… “abitava a Trastevere, ma ha creato la fantasia del western”.
Ed in qualche modo al genere “horror” Avati è tornato, con un’opera ibrida, colta ed elegante, molto chiaroscurale. Inevitabile il ricordo di uno dei suoi primi film (e dei più famosi), “La casa delle finestre che ridono” (1976).
Sostiene il regista: “nello scambio che onestamente ci deve essere tra il cineasta e lo spettatore in sala, si deve essere onesti: se io pago nove euro per entrare in un cinematografo, e voglio vedere un film horror, questo film deve essere un film… de paura!”, senza infingimenti e senza inganni.
Ed il film di Avati un po’ di… paura la provoca, ma è soprattutto un film di atmosfera, ambientato in un’Italia del 1952, tra le Valli di Comacchio e Venezia, con una storia terribile: onde evitare che vengano coinvolti sacerdoti – e quindi la Chiesa – in un processo sull’omicidio di un adolescente, considerato dalla fantasia popolare un indemoniato, un giovane funzionario, di fede Dc, viene inviato da Roma – su preciso input del Presidente del Consiglio – in missione speciale, a svolgere una sorta di indagine parallela… Carlo, il giovane accusato dell’omicidio, ha per amico Paolino. La loro vita è serena fino a quando arriva nel paese Emilio, un giovane dall’aspetto un po’ deforme, figlio di una possidente terriera (donna di fede cattolica, e poi divenutane avversaria): il ragazzo viene preceduto dalla fama terribile di aver sbranato a morsi la sorellina… Non staremo a svelare né la trama (che si dipana in modo efficace), né il finale (che il regista ha deciso di cambiare all’ultimo minuto, e finanche ad insaputa della troupe), che pone interrogativi diffusi e pervasivi sulle molteplici identità del male. Ed in effetti, il film è una narrazione inquietante sul Male, con un approccio “gotico” (come ha precisato lo stesso regista, ovvero di sacralità), tra il macabro ed il sacrilego, che senza dubbio evoca sia Roman Polanski sia Stanley Kubrick, anche se non arriva agli stessi livelli di tensione.
È anche un film sulla diversità, sull’essere “alieno” ovvero altro rispetto al buon senso dominante, sulle dicerie popolari… Certamente è un ritratto anche di una società italiana (contadina, provinciale, conservatrice, bigotta, spesso protagonista delle opere di Avati) che, in buona parte, non esiste più.
Ci piacerebbe vedere Avati all’opera nell’analizzare la psicosociologia dell’Italia dei “social network”, e di una politica che spesso rilancia propagandisticamente le “fake news”…
Il film è co-sceneggiato da Pupi Avati, dal figlio Tommaso, dal fratello Antonio. È tratto da un romanzo dello stesso Avati, pubblicato da Guanda. Senza dubbio tratto anche dalle memorie giovanili del regista, che si è dichiarato “chierichetto professionista”.
Eccellente il cast, da Cesare S. Cremonini a Gabriele Lo Giudice, da Massimo Bonetti a Gianni Cavina, da Lino Capolicchio a Chiara Caselli… Senza dimenticare il giovane protagonista, l’esordiente Carlo Mongiorgi, ed il “Signor Diavolo” interpretato dall’efficace Lorenzo Salvatori. A proposito di “male”, Lino Capolicchio ha confessato di aver visto la morte con i propri occhi, avendo dovuto affrontare la chemio, ed ora è felice di essere uscito fuori dal tunnel della malattia: commovente intervento, convinto applauso di solidarietà dei presenti tutti.
Il regista ha sostenuto che invecchiando si sente sempre più vicino alla sua dimensione infantile: queste due fasi della vita sono accomunate dalla “fragilità”. E si ricordi che nel febbraio del 2018 Pupi Avati si è dimesso dalla commissione ministeriale dei “cinque saggi” per la selezione dei finanziamenti pubblici al cinema, nella quale l’aveva voluto l’allora Ministro Dario Franceschini, a seguito delle polemiche di chi lo riteneva troppo “vecchio” per selezionare le nuove opere del cinema italiano. Dichiarò a Davide Turrini de “il Fatto Quotidiano”: “quando avrà la mia età, le auguro di arrivarci, si diventa vulnerabili a tutto. La sua obiezione l’ho colta al volo. La mia presunta inadeguatezza perché sono vecchio è servita come pretesto per andarmene… Evidentemente un incarico come questo va preso con la leggerezza con cui si prendono le cose oggi. Dico in generale. La competenza è diventata un limite, e questo è disdicevole”. E nell’intervista continuò: “il fatto di essere giovani non è una qualità giusta dell’essere umano. Non è perché ho 36 anni, allora devo diventare per forza presidente del Consiglio. Funziona che diventi presidente del Consiglio se sei capace di tirarci fuori dalla situazione orrenda in cui ci troviamo, e così in tutte le cose del mondo. Raffaele La Capria scrive cose meravigliose a 90 anni. Verdi scrisse il Falstaff a 80 anni…”.
Allorquando questa mattina un collega giornalista ha domandato in “chi” o “cosa” e “dove” il regista vede il “Male” giustappunto, Pupi Avati s’è lasciato andare ad uno sfogo appassionato, facendo riferimento ad una specifica persona che avrebbe a tutti i costi ostacolato la realizzazione del film ovvero le intraprese della società di produzione DueA: “non farò mai il nome di quest’uomo… o di questa donna… ma questa persona, per me, è l’incarnazione del male!”.
Al di là dello sfogo specifico (personale?!), è evidente che Pupi Avati ha voluto spiazzare lo spettatore, identificando il maligno anche in chi apparentemente dovrebbe combatterlo, o comunque sostenendo che non vale una visione manichea che pretende di identificare in modo netto il “buono” ed il “cattivo”, il bianco ed il nero. E la fotografia del film, firmata da Cesare Bastelli, si caratterizza per una cromia giustappunto chiaroscurale.
Il regista ha sostenuto che l’attuale assetto del sistema cinematografico ed audiovisivo italiano stimola la riproduzione di opere che sono spesso l’una simile all’altra, nel dominio della “commedia”, limitando le potenzialità che la cinematografia italiana potrebbe sviluppare, se si desse fiducia a coloro che sperimentano i percorsi del cinema “di genere”. È anche vero che qualche esplorazione, ormai c’è, anche in Italia, ma effettivamente si tratta di pochi titoli rispetto a quei 200 film che vengono prodotti ogni anno, teoricamente destinati alla sala cinematografica, ma spesso invisibili.
Evidente il desiderio di riscatto: “sono stato costretto a fare televisione, ma la televisione è basata sulla ripetizione, ed io voglio fare cinema che sperimenta e che ricerca, non cinema che conforta e riproduce l’esistente…”.
Abbiamo chiesto al Maestro quale sarebbe la sua ricetta, se fosse lui il titolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Ci ha risposto in modo netto, senza esitazione: “guardare alla Francia, alla politica culturale francese! Non è un caso che lì le sale cinematografiche siano piene… come vengono utilizzati questi 400 milioni di euro l’anno che lo Stato italiano assegna al settore cinematografico ed audiovisivo?!”. In verità, è una domanda che, nel settore, si pongono sempre più operatori (fatti salvi coloro – e sono poche decine – che godono di una situazione di sostanziale conservazione e di concentrazione dei processi decisionali). Avati ha lamentato, in particolare, l’assenza di imprenditori coraggiosi: i distributori sono pavidi e soprattutto ci sono troppo pochi “decision maker”… C’è poco coraggio, insomma, e lo Stato non aiuta granché a stimolare la propensione al rischio. Il sistema è autoconservativo e stagnante.
Si segnala che il film di Avati viene distribuito in sala nel peggiore periodo dell’anno, almeno dal punto di vista cinematografico, qual è agosto: uscirà nei cinema, in 200 copie, il 22 agosto. È una scommessa, ma temiamo che possa essere un… suicidio per RaiCinema ovvero per il suo braccio “theatrical” qual 01Distribution, e specificamente per “Il Signor Diavolo”.
Il film è uno dei titoli del listino dell’operazione ministeriale della campagna promozionale “Moviement” (alla quale abbiamo dedicato grande attenzione anche su queste colonne: vedi “Key4biz” del 19 aprile 2019, “Moviement, facciamo luce sul progetto speciale della direzione cinema del Mibac”), ovvero nell’economia dell’ardito tentativo di rilanciare il consumo in sala anche d’estate. Il giorno prima, il 21 agosto, esce “Il Re Leone” della Disney, e lo stesso giorno “Charlie Says”, il film di Mary Harron sul musicista, manipolatore e mandante degli efferati omicidi che sconvolsero gli States nell’estate del 1969 (tra cui l’assassinio di Sharon Tate)…
Ricordiamo che il film di Avati è sostanzialmente l’unico film italiano di un qualche “appeal” anche commerciale che rientra nella campagna “Moviement”, insieme a “Dolcissime”, opera prima di Francesco Ghiaccio, in sala grazie alla Vision Distribution, realizzato da Indiana Production, in uscita il 1° agosto. Anche per questo titolo, temiamo il peggio! E non sembra destinato a gran successo “Vita segreta di Maria Capasso”, per la regia di Salvatore Piscitelli (distribuzione Vision), uscito giovedì scorso 18 luglio, e distribuito in soltanto 40 schermi (nel giorno di esordio, ha incassato 3.184 euro, a fronte dei 334.071 euro di “Spider-Man: Far From Home”)…
Il produttore Antonio Avati ha sostenuto che, quando RaiCinema ha prospettato questa scelta agostana, è emersa nei due fratelli molta perplessità: “se riusciamo a farcela, con un buon risultato in sala, avremo vinto due volte… certamente avremmo preferito uscire in un periodo migliore, e magari con 400 copie”.
In effetti, nonostante le reiterate flebo di entusiasmo dei promotori – in primis la Sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni –, i risultati della campagna “Moviement” non sono entusiasmanti: la situazione è senza dubbio migliorata un po’ (almeno se si raffrontano giugno e luglio del 2018 e gli stessi mesi del 2019), ma non si può sostenere che sia in atto una vera e propria inversione di tendenza.
Attingendo a dati ufficiali della stessa industria cinematografica ovvero alla fonte Cinetel, infatti, dal 1° gennaio al 14 luglio 2019 si sono incassati nelle sale italiane (sempre più chiuse, e peraltro sottoposta alla concorrenza di arene spesso “free”) 330 milioni di euro, che corrispondono ad un incremento dell’8,9 % rispetto all’anno 2018, ma siamo di fatto allo stesso livello di due anni fa, anzi – 0,6 % sul 2017. E si conferma la prepotenza (prevedibile) dei film americani: la quota di mercato Usa è al 64,1 % degli incassi a fronte di quella dell’Italia al 18,1 %.
Non è una bella stagione, insomma, per il cinema italiano. E non basta l’ottimismo della volontà. Avati ha rilevato che sta lavorando – con il sostegno di RaiCinema, che ha accordato una “attivazione” (il primo step nel processo produttivo di un film) – alla prima finora mai realizzata biografia di Dante Alighieri: “son state realizzati film biografici sui più improbabili personaggi, tra poco forse anche Totti, e credo che l’Italia meriti un film dedicato a questo genio, la cui esistenza personale mostra aspetti impressionanti”. Speriamo che non venga distribuito in sala… nell’agosto del 2020.
Clicca qui, per vedere il trailer de “Il Signor Diavolo” di Pupi Avati, distribuito da 01Distribution, in sala dal 22 agosto 2019.