Le frodi pubblicitarie in tutto il mondo, solo nel primo trimestre 2017, hanno causato danni per 16,4 miliardi di dollari. Si calcola, secondo la CNBC, che il mercato digital advertising abbia perso più del 20% dei ricavi totali nel 2016.
Le attività non umane, quelle per intenderci eseguite da macchine, le “botnet”, che intervengono massicciamente nel traffico pubblicitario, hanno determinato per il 2016 un costo per gli investitori pari a 12,5 miliardi di dollari secondo un’indagine condotta da Adloox.
La stessa cifra è stata rivista al rialzo dall’agenzia The&Partnership e per il 2017 si dovranno aggiungere 4 miliardi di dollari di danni. Chi poi si affida a piattaforme di marketing automatizzato (“marketing automation”), potrebbe incorrere più facilmente in questo tipo di frodi digitali.
La stessa agenzia ha stabilito che su 30 miliardi di dollari investiti in marketing automation, almeno il 30% è andato a finire in botnet fraudolente, per un valore che ha sfiorato gli 8 miliardi di dollari nel 2016.
Questo il quadro generale dell’“advertising fraud” (o anche del “click fraud”), dove reti di pc infettati da virus, le botnet appunto, riescono a simulare così bene i click-through sui banner e sugli annunci pubblicitari, da sottrarre facilmente miliardi di dollari agli inserzionisti ogni anno.
Reti di “computer zombi”, manovrate da virus e malware, che riescono ad ingannare gli algoritmi aziendali preposti al controllo del mercato, “camuffandosi da umani”, gonfiando a dismisura il numero di impression.
Ulteriori dati sul fenomeno sono stati ottenuti grazie alla simulazione condotta nell’Università Carlo III di Madrid e pubblicata nel sito arXiv. I contatori degli accessi ai video su internet, utilizzati dai servizi per la pubblicità a pagamento, registrano anche il 60% delle visite gonfiate da botnet.
I ricercatori, spiegava una nota Ansa di aprile, hanno utilizzato come esperimento un botnet per visualizzare 150 volte due video pubblicati su YouTube. Di queste 150 false visualizzazioni, il contatore di YouTube ne ha registrate 25 come visite reali, mentre AdWords, il servizio di Google per inserire spazi pubblicitari a pagamento, ne ha considerate vere ben 91, pari al 60%.
Le campagne pubblicitarie delle aziende vengono ‘spalmate’ su tantissimi siti web. Più si amplia la rete di siti su cui appare il banner, maggiori le probabilità di ottenere dei ritorni. Il problema è che più ci si addentra nel web e più è facile atterrare su pagine costruite ad arte dai cyber criminali, cioè sviluppate esclusivamente per diffondere il contagio e ingrandire l’eventuale botnet dell’ad fraud.
Nel 2014, per fare un esempio pratico, una campagna internazionale della Mercedes-Benz è stata visualizzata più da bot che da persone. A scoprirlo è stata un’azienda anti-frodi digitali britannica, la Telemetry: gran parte dei banner erano finiti su siti fraudolenti e su 365.000 ad impression, ben il 57% è stato prodotto da robot.
Con l’intento di ripulire l’ecosistema pubblicitario digitale dalle frodi, è da qualche anno al lavoro il Trustworthy Accountability Group: alle aziende che effettueranno “la scansione di una congrua percentuale della loro inventory pubblicitaria” alla ricerca di azioni fraudolente sarà riconosciuta la certificazione anti-malware.