Si chiama “Teams” perché è stato creato per mettere in comunicazione gruppi (teams) di lavoratori che devono confrontarsi da remoto su un progetto comune. Se fosse stato creato per fare i processi lo avrebbero chiamato “Trials”.
Queste sono le parole di Gian Luca Totani, presidente della Camera Penale de L’Aquila, oltre che carissimo Amico e Collega.
Si tratta di un avvocato che, tecnologicamente, “sa il fatto suo”, così come dovrebbe essere per chi si trova nella posizione di decidere protocolli e piattaforme, nelle rispettive materie.
Sembra però non essere sempre così, a giudicare dalla situazione attuale.
Un’improvvisa voglia di processo penale telematico ha smascherato tutta l’inadeguatezza di via Arenula con le sue scelte in nessun modo ponderate. Ma andiamo con ordine.
Cos’è il processo telematico
I civilisti già lo vivono sulla loro pelle, tra gioie e dolori, da qualche anno. Per spiegare di cosa si tratta, anche ai non addetti ai lavori, si riporta la fonte Consiglio Nazionale Forense:
Il Processo civile telematico è una serie di attività tipicamente processuali finora realizzate in forma cartacea, destinate a compiersi in via telematica (cioè da remoto) e che per questo richiedono il possesso di alcuni di strumenti informatici.
Al momento con PCT si intende:
- la consultazione on-line del fascicolo processuale
- le attività di comunicazione telematica con gli uffici giudiziari
- il pagamento telematico di contributo unificato
Ebbene, questa febbre da processo telematico non ha minimamente contagiato il settore penale, mentre “qualcuno” (Ministero e magistratura, in primis), preme per qualcosa che ha ben poco a che vedere con il corrente schema di PCT, che corrisponde sostanzialmente a “dematerializzazione”.
La consultazione dei fascicoli telematici
La consultazione dei fascicoli telematici è una chimera. Soltanto alcune sedi hanno adottato una sistematica scannerizzazione dei fascicoli, per giunta gli uffici giudiziari (es. Procura e Tribunale) non parlano tra loro, non condividono i dati.
Le comunicazioni telematiche con gli uffici giudiziari funzionano a senso unico. Così recita l’art. 148, comma 2-bis, c.p.p.: “L’autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi idonei. L’ufficio che invia l’atto attesta in calce ad esso di avere trasmesso il testo originale”.
Avvocati e parti non possono fare lo stesso, lo ha più volte sentenziato la Suprema Corte. Con buona pace di chi pretende di essere custode della Costituzione e non si avvede di questa enorme disparità.
Per non parlare dei pagamenti telematici. Basta un F23, magari la piattaforma PagoPA già esistente, ma anche se c’è una scannerizzazione del fascicolo, ad esempio, delle indagini preliminari, tranne in qualche sede più “smart”, tutto si ferma alla consueta richiesta della “marca”, il più grande feticcio della burocrazia-fisco-giudiziaria: in sua assenza non si fa nulla, (salvo soluzioni, appunto, creative delle varie sedi).
A bene vedere, di “videoconferenza” non si parla mai, non se n’è mai parlato come forma di processo telematico. Semmai, è soltanto una forma di celebrazione dell’udienza. Che, appunto, non è processo telematico.
I protocolli, prima e dopo
Si riferiva, poco sopra, di soluzioni “creative” di varie sedi giudiziarie. Non sono certo una novità, si chiamano “protocolli”, accordi sottoscritti tra autorità giudiziarie e consigli dell’ordine e/o camere penali locali.
Peccato che abbiano un valore giuridico coincidente con lo zero e anche sotto lo zero, atteso che, talvolta, si tratta di (pretese) regole contra legem.
Oggi hanno incontrato rinnovata fortuna perché, con l’emergenza in atto, in “qualche modo” occorre fare. Il problema però è che non si tratta di un modo, ma, per giunta, i modi sono tanti. Si è completamente perso il senso della regola unica e nazionale, tutto è lasciato alle contrattazioni locali, ai rapporti di forza che vigono nei singoli circondari. A leggere certi protocolli viene da chiedersi, in molti casi, se abbia avuto senso studiare per una vita materie giuridiche a cominciare dal diritto costituzionale.
Il CNF, poi, ha ritenuto di diffondere un “modello” di protocollo, ma a parte il fatto che è arrivato tragicamente in ritardo, senza una vera concertazione con l’avvocatura associata, appare calato dall’alto, per giunta con strappi e concessioni molto discutibili e ben poco condivisibili. Il fatto è che questo modello non sempre è stato seguito nelle varie sedi, circostanza che ne svela la perfetta inutilità.
All’improvviso, il processo penale telematico, anzi no
A ben vedere, il processo in remoto non è una novità. Lo sa bene chi si occupa di reati distrettuali, terrorismo ed eversione oppure collaboratori. Tutto origina dalla gestione Orlando, a cavallo tra il 2017 e il 2018, con le regole degli artt. 45-bist e 146-bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale.
Il problema è che queste norme speciali sono divenute emergenziali dapprima timidamente con l’art. 10 d.l. 9/2020, poi con l’art. 83, comma 9, d.l. 18/2020, comunque regola per procedimenti con detenuti, internati e sottoposti a custodia cautelare.
Ma, come detto sopra, non si tratta di un vero processo telematico, bensì soltanto di videoconferenza. Non c’è vera “modernità” in tutto ciò, ma mera “comodità” anche per la resistenza dei sindacati Giustizia che hanno di fatto confessato la totale inadeguatezza del personale. Lungimiranza e visionarietà avrebbero suggerito ben altro.
Processo telematico e piattaforme ministeriali
Le norme appena viste fanno riferimento a successivi interventi della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA) presso il Ministero che, in effetti, è intervenuta con due distinti provvedimenti, del 10 e del 20 marzo 2020 e 19 maggio.
La scelta della piattaforma è immediatamente ricaduta su Skype e Microsoft Teams (che progressivamente sostituirà la prima) ma è evidente che, oltre ad essere non sempre agevoli nell’utilizzo (specie la seconda) non sono neppure pensate per un’attività tanto particolare come quella processuale.
Per tacere delle falle svelatesi nel completo silenzio di quella parte della magistratura preoccupata per la sicurezza informatica del “processo telematico”, ma silente di fronte all’emergenza.
Questioni tecnico-giuridiche
A questo punto, incidentalmente non si può tacere che l’Italia è un paese afflitto da un profondo e cronico “digital divide” e che non lo si può nascondere soprattutto in un contesto come quello della Giustizia: nessuno deve rimanere indietro.
Inoltre, si pongono altre questioni tecnico-giuridiche non banali, sulla falsariga di ciò che è emerso per l’app “Immuni”.
Una piattaforma rispettosa dei diritti dovrebbe avere queste caratteristiche:
- non commerciale – perché uno Stato, in una sua funzione così fondamentale come quella giurisdizionale – non può dipendere da soluzioni meramente commerciali, peraltro collegate a quelle in uso nei tribunali (Microsoft Office);
- autonoma – direttamente gestibile dal Ministero, con dati da lui gestiti e distribuiti, in conseguenza di quanto sopra;
- sicura – che utilizzi tecnologie crittografiche;
- open source – ci si può fidare di un sistema di cui non è minimamente chiaro il funzionamento? Possiamo fidarci “a scatola chiusa” di un programma che non sappiamo cosa fa? L’unica via di trasparenza è il “codice aperto”, verificabile da tutti, nell’interesse di tutti;
- dedicata e semplice – Teams, come ho citato sopra, è una piattaforma generica, non specifica per “fare i processi”, oltre tutto non proprio intuitiva e leggera in termini informatici;
- eccezione e non regola – perché la “presenza” non è un capriccio dell’avvocatura.
Tutto ciò nel rispetto sia dei principi costituzionali (uguaglianza, diritto di difesa, giusto processo, etc.), sia della tutela dei dati personali che essendo prevista espressamente dalla Carta dei diritti UE (art. 8) non è certo un inutile peso di cui sbarazzarsi appena possibile.
Teams e il Garante
E guarda caso, più o meno queste sono state le conclusioni del Garante Privacy richieste dal Consiglio di Stato di un recentissimo parere sulla regolamentazione delle udienze amministrative in remoto.
Due i fondamentali al di là dell’emergenza: open source e dati in via Arenula, non chissà dove: ci voleva tanto?
Eppure il DGSIA – Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati, con provvedimento 21 maggio 2020 continua a vedere – per le sole videoconferenze – soltanto l’aspetto (importantissimo) degli appalti, senza avere alcuna sensibilità per i diritti delle parti e per la tutela dei dati personali.
E domani?
Già, perché il problema è il domani, non certo questa emergenza che, prima o poi, finirà.
Chiunque, nei propri studi giuridici, ha incrociato il riferimento alle leggi speciali ed emergenziali, comprendendo quanto esse possano infrangere i diritti individuali.
Eppure, non pochi giuristi auspicano che le leggi dell’emergenza diventino da eccezione a tendenziale regola.
Cui prodest? Evidentemente a chi vuole questo.
Ad avvocati e, ancora prima, assistiti proprio no. Dunque, la risposta è di una semplicità disarmante. Le videoconferenze le vogliono i tribunali, i magistrati, probabilmente per comodità pratiche e processuali, malgrado le resistenze di ieri per i motivi menzionati.
Ci si chiede se la lobby di potere sia quella (fantomatica) degli avvocati oppure altra che, nel frattempo, ha chiaramente influenzato non poche riforme degli ultimi anni.
Articolo a cura di Daniele Minotti, Avvocato, D&L Net