Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.
Quanto ci importa della nostra privacy, presunta o effettiva che sia? Quanto ci interessa davvero che sconosciuti abbiano accesso ai nostri dati sensibili, dall’indirizzo in cui viviamo a dove andiamo a fare la spesa, dalle nostre serie preferite alle pagine web che visitiamo più spesso? Ci iscriviamo al nuovo social spuntando le caselle per il trattamento dei dati senza nemmeno leggerle e vi carichiamo tante di quelle foto da permettere a un malintenzionato un po’ sveglio di capire dove abitiamo, dove lavoriamo, chi frequentiamo; ma l’idea che un’app come Immuni possa “sapere” (anche se in realtà i dati sono criptati e al sicuro) con chi ci siamo visti è un deterrente sufficiente a non farcela scaricare. Ma se IOapp – che ha problemi di privacy non indifferenti – propone cashback con cui avere un po’ di sconto per gli acquisti di Natale, eccoci tutti sugli store iOS e Android e poi a maledire lo SPID e le carte di credito che non riusciamo a registrare per le ore successive, mentre distribuiamo bellamente i dati dei nostri conti correnti e non solo.
Insomma, è difficile trovare tracce di un comportamento razionale nella nostra relazione con la privacy, da quando l’onnipresenza di Internet ci ha costretto a fare i conti con la possibilità che la nostra vita possa essere in gran parte ridotta a qualche stringa di testo che gira liberamente per la rete. Di sicuro le grandi aziende sono tutt’altro che innocenti, considerando come Facebook e altri colossi siano stati piuttosto disinvolti nel gestire i dati dei propri utenti, come ha dimostrato (tra i tanti) lo scandalo Cambridge Analytica. Ma forse qualcosa sta cambiando: a dimostrarlo è una crescente richiesta, da parte degli utenti, di app che garantiscono una privacy superiore, e la conseguente risposta da parte degli sviluppatori, che ad esempio per le app di messaggistica hanno messo a punto diverse nuove opzioni, come l’end-to-end data encryption o i messaggi che vengono eliminati dopo un determinato lasso di tempo. Per non parlare di quei social come Snapchat o anche Instagram con le sue Stories, che di fatto includono la privacy nell’interfaccia grazie alla permanenza di poche ore di certi tipi di contenuto degli utenti.
Più dati con i messaggi, più sicurezza e privacy
Secondo una recente ricerca di App Annie, le applicazioni di messaggistica che stanno crescendo di più sono proprio quelle che offrono determinati standard di criptazione, di pari passo con l’aumento delle caratteristiche dei piani Internet mobile, sempre meno cari e con un maggior numero di gigabyte di traffico offerti per canoni mensili medio/bassi (su SOSTariffe.it è possibile valutare le opportunità più convenienti per scambiarsi dati con il proprio smartphone). Lungi dall’essere utilizzati soltanto per scambiarsi messaggi di testo, oggi i dispositivi mobili servono sempre di più a inviare e ricevere immagini, video, audio (come ad esempio i vocali). Considerando che circa la metà del tempo passato di norma sugli smartphone e simili device è dedicato proprio ai social e alle app di messaggistica, non stupisce che gli utenti stiano cominciando a prendere coscienza dell’importanza di tenere al sicuro i propri dati sensibili, anche se comportamenti non del tutto razionali, dovuti anche alla scarsa trasparenza degli stessi servizi e di chi li proponi, non mancano.
Chi ha ragione tra le imprese e gli utenti?
Bisogna poi tenere conto che la crescente richiesta di una funzionalità – come appunto un controllo più serrato dei dati sensibili – può essere un motivo di scontro tra le società che cercano di soddisfare questo bisogno (anche perché hanno solo da guadagnarco) e quelle che finirebbero col perdere appeal, e di conseguenza fatturato, con un inasprimento delle misure di protezione della privacy. Lo testimonia il recentissimo scontro tra Facebook e Apple, che ha visto il social di Mark Zuckerberg acquistare intere pagine sui più importanti quotidiani statunitensi per lamentare le troppo stringenti politiche di privacy della Mela, che nella primavera del 2021 dovrebbe attivare su iOS 14 un nuovo protocollo antitracciamento che finirebbe col rendere impossibile per Facebook offrire ai suoi utenti annunci personalizzati, basati sulle sue abitudini e sui suoi interessi. Gli ostacoli al monitoraggio degli annunci, infatti, ottenuti con l’implementazione di un nuovo tag identificativo casuale del dispositivo utilizzato (IDFA, Identifier for Advertisers), secondo il social impedirebbero ad alcuni utenti di vedere del tutto la pubblicità o vederne di meno rilevante. Facebook ha parlato di “sostegno alle piccole imprese”, ricordando come più di 10 milioni di aziende si affidino alla società di Mountain View e ai suoi strumenti pubblicitari per trovare nuovi clienti e interagire con la comunità. Un problema non da poco, in effetti, considerando come la pandemia da coronavirus abbia dato un’accelerata notevole alle attività online, e che secondo Deloitte il 44% delle piccole o medie imprese dall’inizio dell’emergenza Covid-19 hanno cominciato a utilizzare gli annunci personalizzati sui social, o li hanno incrementati.
L’Europa contro Google e Amazon
Dal canto loro, le istituzioni non hanno particolare intenzione di privilegiare le aziende rispetto ai diritti degli utenti, anzi; il dibattito tra le aziende e i governi su questi argomenti continua sempre più serrato, arrivando a livelli di scontro che inevitabilmente si concludono o con la minaccia di multe o con quella, da parte dei colossi dell’informatica, di abbandonare una determinata nazione per via di regole troppo restrittive, con ovvie ripercussioni sull’occupazione. Solo pochi giorni fa Reuters ha riportato come ben sei Paesi dell’Unione Europea (Croazia, Cipro, Grecia, Malta, Portogallo e Romania) abbiano contestato a Google ed altre aziende un uso illegale delle offerte pubblicitarie in tempo reale, lesivo dei diritti alla privacy degli europei.
Grazie a un’azione congiunta, Civil Liberties Union for Europe, Open Rights Group e la Fondazione Panoptykon hanno rimarcato una serie di presunte violazioni, che si ricollegherebbero ad analoghi reclami presentati da altre nazioni dal 2018, per il mancato rispetto del Gpdr.
Non va meglio ad Amazon, che ancora con Google in Francia si sta trovando a dover gestire una situazione complicata riguardo alla policy sui cookies: l’authority francese ha infatti comminato una multa da 100 milioni di euro a Google e a 35 al colosso dell’e-commerce guidato da Jeff Bezos per il mancato rispetto della legge sulla privacy, a causa di segnalazioni poco chiare sul ruolo dei cookies e sulle possibilità per l’utente di disattivarli. Naturalmente le due aziende negano ogni addebito, dichiarando che la privacy degli utenti è una “priorità assoluta”. Resta da vedere se i consumatori continueranno a essere d’accordo.
Fonti:
https://www.appannie.com/en/insights/market-data/consumers-seek-enhanced-privacy-app-features/