Il colore rosa – pink per gli anglofoni – è una tonalità controversa, probabilmente per la sua forte associazione al concetto di femminilità e, in certe declinazioni, perfino alla ‘iper-femminilità’. È strano ricordare che fino a un secolo fa il colore era considerato decisamente ‘maschile’.
La trasformazione del messaggio che il suo utilizzo dovrebbe dare – il suo ‘sapore’ – comincia a radicarsi solo negli Anni ’20 del secolo scorso e si ‘ufficializza’ – se così si può dire nelle circostanze – intorno alla Seconda guerra mondiale, quando i nazisti lo scelsero come tonalità del codice dei triangoli a colori che usarono per distinguere le categorie di prigionieri nei campi di concentramento: ‘rosa’ per gli omosessuali, come il ‘giallo’ per gli ebrei e così via.
Per molti secoli, invece, il rosa è stato considerato più ‘appropriato’ dal punto di vista estetico per essere associato ai maschi.
Ancora nel 1918 una rivista specializzata in abiti per bambini, Earnshaw’s Infants’ Department, scriveva che il rosa, più “forte e deciso”, era indicato per i maschi, mentre il blu, “è più delicato e grazioso, più adatto alle femmine”.
Il ragionamento classico invece aveva a che fare con la composizione del colore, un miscuglio tra il ‘virile’ rosso del sangue e il bianco che rappresentava la purezza di spirito.
È facile pensare che sia questa l’interpretazione che portò Fra’ Angelico – propriamente, il Beato Giovanni da Fiesole – a raffigurare l’Arcangelo Gabriele vestito di rosa mentre incontra la Vergine – l’immagine che appare qui sopra – in un suo affresco nel convento di San Marco a Firenze, datato tra il 1440 e il 1450.
Certo, il ragionamento che dovrebbe aver portato il pittore rinascimentale alla ‘concettualizzazione’ della scelta del colore – incongrua all’occhio moderno – contrasta con il nostro modo di pensare. Al giorno d’oggi, preferiamo ‘politicizzare’—il Beato poteva andare almeno per un ‘rosa shocking’ con le borchie…