C’è in ballo la cassaforte degli italiani, ma il futuro delle Poste è ancora nebuloso. Da una parte il Ministero dell’Economia e delle Finanze pronto a privatizzare un altro 30% di Poste Italiane con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, e dall’altra parte il sottosegretario allo Sviluppo economico, Antonello Giacomelli, che si oppone alla cessione del secondo pacchetto azionario di Poste, (la prima tranche di 29,7% è iniziata ad ottobre 2015), perché preoccupato sia degli oltre 500 miliardi di risparmi che 32 milioni di italiani hanno affidato a Poste sia per le conseguenze occupazionali.
“Capisco l’esigenza di ridurre il debito pubblico, ma avanzerò una proposta su come raggiungere l’obiettivo senza procedere a una seconda tranche di privatizzazione di Poste Italiane”, ha dichiarato Giacomelli, ieri in Senato a margine di un’audizione presso la Commissione Lavori pubblici e Comunicazioni.
La posizione è in linea con quella espressa da Luca Burgalassi, Segretario Generale di SLP-CISL, il sindacato lavoratori Poste della CISL: “il futuro di Poste deve guardare alla digitalizzazione e ai cambiamenti del futuro, ma le Poste devono fare innanzitutto le Poste e mantenere salda la missione per cui sono nate, declinandola con i grandi cambiamenti della nostra epoca”.
Oggi il sottosegretario è tornato in argomento: “Leggo che Padoan teme un ritorno dello statalismo – ha detto Giacomelli – Non credo che l’abbia detto ma ricordo che non vengo da una cultura statalista, non sono un dalemiano né ho mai amato i capitani coraggiosi. Quanto alla privatizzazione di Poste confermo mia preoccupazione e perplessità. E su questo ci sarà nei prossimi giorni, mercoledì prossimo, un momento di confronto nell’assemblea del gruppo Pd alla Camera”.
Al momento il Tesoro sembra tirare dritto e come ha confermato il ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, “il 29,7% del capitale di Poste Italiane ancora in mano al Tesoro potrebbe andare sul mercato tra la primavera e l’estate di quest’anno”.
Il sottosegretario Giacomelli, però, vuole bloccare quest’operazione finanziaria per due motivi validi, anzi per evitare due pericoli.
Numeri alla mano ecco cosa preoccupa il sottosegretario allo Sviluppo economico, come si evince da una lettera inviata nei giorni scorsi ai vertici del Pd. “Vorrei sgombrare il campo da un equivoco. Non è in discussione”, puntualizza Giacomelli, “la necessità di ridurre il debito pubblico ma, in nome di questa esigenza, non si può certo porre ogni ipotesi di privatizzazione sullo stesso piano. Poste ha una rete capillare di sportelli diffusi su tutto il territorio nazionale, impiega circa 140mila lavoratori di cui 70mila negli uffici postali e altri 60mila in servizi postali”.
“Ma non è tutto”, ha aggiunto, “ha una raccolta di 500 miliardi di euro, che sono i risparmi di 32 milioni di italiani. Soprattutto pensionati, casalinghe, impiegati. Con 350 miliardi di euro di buoni e libretti postali e 130 miliardi di BTp, acquisiti con le giacenze dei conti correnti e la raccolta assicurativa, oggi Poste è la più grande cassaforte degli italiani e garantisce circa un quarto del debito pubblico”.
Dunque sono due i pericoli che Giacomelli intravede nel medio periodo con la vendita della cassaforte degli italiani:
- Si finirebbe per consegnare il risparmio degli italiani agli investitori internazionali, emanazione di banche d’affari straniere, con possibili riflessi anche sulla collocazione del debito pubblico.
- La vendita di un secondo pacchetto di azioni inevitabilmente finisca per incidere fortemente sul ruolo di Poste e del suo servizio, oltre che sul livello occupazionale”.
Per questo serve una riflessione più approfondita da parte del Ministero dell’Economia e dell’AD di Poste Italiane Francesco Caio, per esempio sedendosi a un tavolo per confrontarsi anche con i sindacati, prima che siano compiuti passi irrevocabili. Perché dal collocamento non si torna indietro.
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