Molto probabilmente siamo entrati nella nuova era del “Plasticene”. Tra qualche centinaio di anni, o forse migliaia di anni, gli archeologici del futuro penseranno al nostro tempo come ad un mondo di cloruro di polivinile, di polietilene e di polietilene tereftalato (o più conosciuto con la sigla PET).
Si tratta di materiali che vanno sotto il nome comune di plastica e in effetti, questo nostro mondo, comincia a caratterizzarsi proprio per il massiccio uso di polimeri sintetici e bioplastiche.
Che ne andiamo fieri o meno, abbiamo due isole di plastica nell’Oceano Pacifico (dette “Garbage patches” o più giustamente “Pacific Trash Vortex”), una di circa 700 mila km quadrati e un’altra ben più grande di quasi 10 milioni di km quadrati, a cui possiamo aggiungere il gravissimo problema delle microplastiche (piccole particelle di materiale plastico generalmente più piccole di un millimetro fino a livello micrometrico), di cui se ne raccolgono 1,23 chilogrammi per chilometro quadrato.
Il mondo sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica, si legge in una ricerca condotta dall’Università statale di New York, dall’Università del Minnesota e da Orb Media. Oltre il 40 per cento di questa massa viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via. Ma la plastica rimane nell’ambiente per secoli: dagli anni 50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica.
Ancora non sappiamo bene come smaltirla tutta questa plastica in eccesso, ma da anni ricercatori e studiosi stanno cercando di trovare una soluzione. In questi giorni ad esempio si parla dell’enzima PETase, descritto sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, cioè una proteina che ha il compito di favorire una reazione biochimica, prodotto da un batterio mangia-plastica.
C’è poi, tra gli altri, il progetto della “Plastic Bank”, che ha lo scopo di affrontare l’inquinamento da plastica con un approccio molto semplice: convertire i rifiuti in plastica in soldi.
Il fondatore della banca, David Katz, ha le idee molto chiare: “Nel mondo esistono 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Se pagassimo 50 centesimi per ogni chilo recuperato otterremmo un mercato di circa 4mila miliardi di dollari”, si legge sul sito dell’Alleanza italiana per un futuro sostenibile (Asvis).
Una cifra enorme se pensiamo che con poco meno di 500 miliardi di dollari si potrebbero alleviare tutte le forme di povertà nel mondo.
Due gli effetti principali di questo progetto: la capacità di dare un valore al rifiuto assieme alla possibilità di pensare ad un riciclaggio di massa, eliminando gli intermediari.
“Quando la plastica ha un valore e viene raccolta, è più facile riciclarla. Mi piace parlare della Plastic Bank attraverso la parabola dei diamanti. Se stai camminando sopra diamanti, e non c’è banca, negozio, niente che tu possa fare con loro, rimangono a terra come pietre. Diamo valore alla plastica accettandola come una forma di valuta. È denaro. Nessuno getta contanti a terra”, ha affermato Katz.
Per aderire al progetto basta poco: “un “collezionista” di rifiuti, un luogo di raccolta, un riciclatore e un corriere”. Per i più tecnologici c’è anche un’app per smartphone.
I primi punti di raccolta dei rifiuti di plastica sono nati ad Haiti, nelle Filippine, in Brasile, in Etiopia e nel Corno d’Africa. Con i soldi ottenuti, gli enti locali e le orhanizzazioni non profit potranno finanziare progetti per l’istruzione, l’inclusione sociale la lotta alla povertà.