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Piccoli schermi crescono sulle spalle delle grandi Tv

Michele Mezza

La ricerca pubblicata dal Consumer Lab di Ericsson sulle nuove modalità di fruizione dei programmi televisivi in Italia ci annuncia un sorpasso storico: per la prima volta nella platea di titolari di connessioni internet (35 milioni, non un circolo esclusivo del bridge) i consumatori di video streaming hanno superato gli spettatori della TV tradizionale.

Un solo punto la differenza (80% contro 79), è vero, ma la svolta sembra irreversibile.

Fra gli altri dati pubblicati, colpisce l’affiorare di comportamenti di massa da parte di utenti maturi – i giovani quello strano scatolotto che ancora ingombra il salotto non lo usano da tempo – ormai abituati a seguire su schermi piccoli (tablet, computer e smartphone) anche format televisivi lunghi come serial e fiction, oltre, ovviamente, le news.

Ancora più decisi i trend nel campo del cosiddetto second screen, ossia quel comportamento per cui ormai diventa sempre più naturale seguire un programma TV, con un secondo device a portata di mano per commentare o approfondire i temi del programma, oppure, come sta imponendosi ormai con grande forza, anche un programma alternativo e diverso, secondo una forma di multitasking visivo.

Gli antropologi ci spiegheranno quali tremende tare cognitive questo modello plurale di consumo televisivo comporterà.

Ma nel frattempo la trasformazione lascia poco scampo ai cosiddetti unilateralisti, ossia ai sacerdoti del vecchio broadcasting: un palinsesto, un programma, un video, un utente.

Il giro di boa suggerisce le solite considerazioni sul cambio di civiltà.

Ma se, più prosaicamente incrociamo questi dati ai dati generali del sistema comunicativo italiano caduta verticale delle entrate dell’editoria, rotta del sistema televisivo, comprendiamo come quello che ci sta dinanzi non è più un problema di restyling delle aziende editoriali, ma di profondo re-thinking, come si dice ormai nei giornali americani.

Non basta più cambiare le veste o la struttura della redazione, bisogna re-immaginarne missione e destinazione.

Altrimenti la spirale si autoriprodurrà inesorabilmente. Esattamente come ci viene indicato anche dal recente convegno a Padova della Fieg dove si constatano gli inesorabili logoramenti dei dati di bilancio e ci si interroga, come ha fatto il Presidente dell’Osservatorio tecnico “Carlo Lombardi”, Alberto Di Giovanni, sul futuro del settore.

Più in particolare, se sovrapponiamo il quadro che emerge dalla ricerca della Ericsson con lo scenario economico della Rai, allora siamo nell’anticamera di un incubo.

Secondo quanto discusso dal consiglio di amministrazione Rai in questi giorni, al 30 giugno 2014 il risultato netto consolidato si è chiuso con una perdita netta consolidata pari a 77,9 milioni di euro, a fronte di un risultato negativo per 3,2 milioni nello stesso periodo dell’anno precedente.

Al netto dei minori ricavi da canone pari a 75 milioni di euro derivanti dal decreto legge 66 del 2014 (il cosiddetto dl Irpef), il risultato netto è stato invece pari a -2,9 milioni e quindi in linea anche con il primo semestre del 2013.

La perdita cumulata determinerebbe una erosione del patrimonio netto della capo gruppo di 220 milioni di euro.

Si supererebbero così i due terzi del capitale sociale. Come del resto aveva già annunciato la presidente Anna Maria Tarantola, nell’indifferenza generale.

In questo spettrale contesto, dove il mercato muta natura e forma, restringendo ogni margine economico e la gestione corrente si avvitano verticalmente, il cosiddetto Piano Gubitosi appare del tutto inadeguato per la sua leggerezza e limitatezza, non certo per una supposta radicalità.

Come in molti sistemi editoriali in Europa, quello che si dovrebbe discutere, invece di mercanteggiare su qualche edizione di Tg e GR sostituiti nei palinsesti, è la mission e la natura della nuova identità di servizio pubblico, a cominciare dai destinatari.

Se, come ci appare chiaro, il sistema sociale e culturale, prima che tecnologico, piega verso modelli fortemente individuali di fruizione, ma, al tempo stesso, fortemente relazionali e collaborativi di uso dei contenuti Tv, allora la Rai, proprio in quanto servizio pubblico, titolare di una mission sociale nel paese, dovrebbe proporsi come laboratorio e vetrina di linguaggi e regole di un sistema del tutto inedito, dove i rischi e le precarietà allignano proprio nell’innesto e nell’adozione di soluzioni tecnologiche esterne ed importate.

Mentre il modello avanzato dai collaboratori del Direttore generale Luigi Gubitosi, sembra troppo preoccupato nel far coincidere i cambiamenti con opportunità gestionali, rimanendo al di sotto del livello minimo per realizzare una reale svolta nella strategia aziendale.

E dal pozzo, senza una fune nuova e una carrucola innovativa, non si esce.

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