C’è una cosa che colpisce quando si leggono i dati sull’uso di Internet – in particolare in questo periodo in cui tutti, più o meno, siamo confinati, limitati, dimezzati o peggio nelle interazioni faccia a faccia: quante ore d’uso adesso sono considerate accettabili, soprattutto se paragonate a qualche tempo fa.
Secondo una nuova ricerca dell’Osservatorio Mobile b2c strategy della School of management del Politecnico di Milano, in media di colleghiamo per 77 ore al mese con Internet mobile (su SOSTariffe.it è possibile confrontare le diverse offerte per trovare le più convenienti) attraverso lo smartphone. 77 ore: il che equivale a più di due ore e mezza al giorno, ogni giorno del mese, senza sosta. Più del tempo che impieghiamo per mangiare, molto più del tempo (a parte rari casi) che dedichiamo allo sport, spesso perfino più del tempo passato in famiglia.
Eppure, gli appelli contro chi sta sempre con gli occhi su uno schermo, appena ha un secondo di tempo libero che non sa come impiegare, non si sentono quasi più: e dire che facevano parte di quello scetticismo latente verso la tecnologia che solo negli ultimi anni abbiamo imparato a superare. Questo perché, semplicemente, lo facciamo tutti, e a dire il vero per la maggior parte dei casi non c’è nulla da vergognarsi: se alla fermata dell’autobus o alla stazione ci mettiamo a controllare le notizie, a leggere un libro, a giocare un po’, ci si chiede perché dovrebbero essere attività meno nobili dello stare a fissare l’altra parte della strada. Tutto questo a maggior ragione quando i nostri orizzonti si riducono, passiamo in casa molto più tempo di prima e Internet rappresenta a tutti gli effetti l’unico modo per evadere dalla realtà. A patto, naturalmente, che tutto questo non si traduca in una vera e propria dipendenza.
I tranelli dei percorsi autonomi sul web
Ma perché riusciamo a passare così tanto tempo su Internet senza annoiarci? Banalmente perché c’è tutto, verrebbe da dire: ma anche perché, lasciando stare momentaneamente i social network o le app per lo streaming video e audio e limitandoci alla navigazione su browser, è evidente che l’architettura su cui è basato il web ci conduce molto spesso assai lontano da dove eravamo partiti. Secondo uno studio effettuato su 2.000 cittadini statunitense da OnePoll e dal sito di didattica online FutureLearn, l’americano medio si “perde” online senza accorgersene per 40 minuti alla settimana, perdendo tempo per approfondire più del dovuto domande e curiosità. È facile perdere la cognizione del tempo trascorso in rete, soprattutto – secondo la ricerca – se si leggono gossip sulle celebrità (il 51%), le notizie del momento (40%), argomenti storici (34%), scientifici (32%) e di salute (31%, soprattutto in periodo di pandemia). Tre persone su quattro hanno ammesso di ritrovarsi in una sorta di wormhole risucchia-tempo cercando argomenti di interesse.
Ma la statistica più preoccupante, forse, è un’altra: il 45% si definirebbe “esperto non ufficiale” su un argomento particolarmente ricercato su Internet. Lo si vede continuamente: proprio il creare percorsi personali per arrivare a determinate informazioni ci fa sentire autonomi, in grado di non subire semplicemente le informazioni che ci vengono imposte dai mezzi monodirezionali (i giornali, i notiziari tv) ma di andarsi a cercare fatti meno noti in luoghi di dubbia attendibilità. Gli effetti di questo modo di pensare sono sotto gli occhi di tutti, tra cospirazionisti, negazionisti e varia umanità che chiacchiera di complotti planetari per qualsiasi cosa. E si crea un corto circuito evidente: considerando come fonti veritiere solo quelle che confermano una nostra idea preconcetta e negando tutte le altre, finiamo in un circolo vizioso dal quale uscire è molto difficile.
Vivere su Internet: oggi una necessità
Allo stesso tempo, il potenziale di avere un’enciclopedia su tutti gli argomenti dello scibile umano perennemente a portata di mano, da consultare quando si vuole, non ha bisogno di essere celebrato. Si chiama unstructured learning, e da un certo punto di vista, permettendoci di sviluppare connessioni autonome e legare tra di loro argomenti particolarmente diversi (possiamo notarlo tutte le volte che ci mettiamo a cercare un’informazione sul film visto la sera prima e ci ritroviamo a guardare video di delfini o approfondire le differenti modalità di coltivazione delle piante da appartamento), sviluppa la nostra intelligenza e la nostra creatività.
La domanda, quindi, rimane: perdiamo davvero tempo su Internet quando guardiamo fuori della finestra ed è già buio, e ci chiediamo come sia possibile, ma abbiamo effettivamente ampliato il nostro bagaglio culturale, seppur non attraverso un’educazione formale? Qualche anno fa è uscito un libro, Wasting time on the Internet (Perdere tempo su Internet, Einaudi) del poeta e docente all’Università della Pennsylvania Kenneth Goldsmith (Einaudi), che contestava questa nozione. In un’intervista a Digicult, Goldsmith si era anche espresso sulla potenzialità di far diventare Internet non un mezzo alienante, ma, al contrario, un catalizzatore di socialità: «Quando “perdiamo tempo” su Internet siamo soli, di conseguenza riteniamo sia qualcosa di alienante. Ma quando questo viene fatto in gruppo, può diventare coinvolgente e “iper-sociale”. Il perdere del tempo su Internet, se lo guardiamo da un certo punto di vista, non è sinonimo di solitudine, il più delle volte, infatti, stiamo parlando con altre persone. Quindi, quando si dice che stiamo diventando meno sociali, io dico di no, anzi stiamo diventando più sociali ed è ciò che accade in classe, dove si crea un’esperienza emotiva e connessa con gli altri all’interno della stanza».
Rileggere ora queste parole ci porta immediatamente alla realtà del coronavirus e del lockdown, quando abbiamo cominciato a “perdere tempo su Internet” insieme: accanto agli utilizzi più istituzionalizzati della Rete, dalla DAD allo smart working, abbiamo cominciato a traslare in versione digitale le nostre abitudini della vita reale, come gli aperitivi di gruppo, le sessioni di ginnastica, le visite condivise ai musei. Ci siamo resi conto, ancora una volta, che la Rete è semplicemente un mezzo; sembra banale, ma la retorica sullo sleepwalking – i “sonnambuli” che non alzano gli occhi dal display nemmeno quando attraversano la strada – ci ha fatto credere che avere un mondo in tasca possa essere uno svantaggio.